KYOTO (the third day – idiosincrasia e gialli ombrelli)


La mattina del terzo giorno, prima di uscire, tramite l’albergo, abbiamo utilizzato anche il servizio di *”spedizione bagagli”. Il seguito della mattina è stato dedicato al girone infernale “trova i biglietti”, compra i biglietti”, “trova l’ufficio giusto dei biglietti”, “rimbalza da un ufficio all’altro”, fallo un’altra volta, fai la giravolta!

Alla fine finalmente siamo riusciti ad avere i biglietti (e prenotare) per le zone (meno turistiche) dei giorni successivi, ringraziando di cuore la signora di un ufficio che al nostro terzo rimbalzo, si è mossa a pietà e ci ha fatto saltare l’ultima fila, per il ritiro biglietti.

Un parto! E’ stato un lungo parto.

Finalmente abbiamo potuto iniziare a mettere in pratica il programma della giornata, il tempio d’argento e il quartiere delle geishe.

Ancora non sapevamo la portata della *Golden Week.

Siamo giunte al Ginkaku-ji Temple, conosciuto anche padiglione d’argento. Anche questo, come il padiglione d’oro, in origine era stato costruito come residenza per uno shogun: Ashikaga Yoshimasa.

Il tempio è meno appariscente e imponente di quello d’oro, ma ha dei giardini molto belli, che la giornata uggiosa, non ha permesso di omaggiare bene attraverso le foto.

Momento cultura. Inizio
Il Ginkaku-ji Temple è uno dei templi Zen più classici del Giappone. Rappresenta un classico esempio dell’estetica wabi sabi. Estetica, che nella quotidianità di una casa, mi piace molto, e se non fossi così disordinata, applicherei nella mia casa.
Vi metto foto (non mia) per farvi un esempio.

Wabi Sabi è una filosofia giapponese applicata a ogni aspetto della vita, sia materiale sia immateriale. E’ basata sul concetto d’imperfezione, transitorietà e semplicità.

Nonostante il suo nome (e a differenza del padiglione d’oro), al padiglione d’argento manca qualcosa, cioè proprio l’argento. In origine lo shogun progettò di ricoprirlo, ma non lo fece mai.
Momento cultura. Fine

Terminata la visita al tempio ci siamo dirette al quartiere delle geishe, “inciampando” anche in un Santuario shintoista. Sopra vi ho scritto “Ancora non sapevano la portata della *Golden Week”, e nel quartiere delle geishe l’abbiamo capito….

Di geishe neppure l’ombra (ma di questo non avevo dubbi) in compenso il quartiere (ovvero la via principale, poiché le vie laterali sono interdette ai non abitanti) era ricolmo, strapieno, ripieno, di giapponesi e di turisti (specialmente di cinesi vestiti di tutto punto con i vestiti tradizionali giapponesi, li affittano in loco).

In quel luogo in quella via, la mia idiosincrasia per la “folla follosa folleggiante” è cominciata a risalire, e le mie espressioni visive a mutare in sguardi omicidi. Infatti, l’unica cosa che ho fotografo di quella via è stato questo, un risciò giapponese, con a lato (non fotografato) in tutina nera il suo proprietario, in attesa di qualcuno che volesse farsi un giro.

Ci siamo allontanate dal quartiere alla ricerca di un bus per ritornare al nostro albergo. I bus, però, erano ricolmi, strapieni, ripieni di persone (golden week docet) e abbiamo deciso di fare ritorno a piedi (non avete l’idea dei chilometri fatti in quei giorni).

Lungo la strada, mentre chiacchieravamo, cercando di capire la strada da fare, infilandoci in vie e viette, mi sono trovata davanti a must di molti dorama: i *Love Hotel.
Si può essere felici per così poco ed essere tremendamente *baka? Sì, si può!

Avrei voluto vedere anche gli interni, che dicono a tema, ma mi mancava la materia prima per farlo, tipo un Takeru Satoh, un Mashiko Atsuki, un Kento Yamazaki, un Dori Sakurada o un Ren Meguro.

Quindi ho dovuto accontentarmi di soffermarmi un attimo davanti con il mio ombrello giallo, e farmi fare la foto ricordo da Paola (comunque se uno dei soggetti sopra citati volesse contattarmi e verificare le stanze a tema… mi scriva pure in privato).

Notare in fondo alla strada un Torii, porta della spiritualità e alla mia sinistra, un Love Hotel, porta della carnalità.

Siamo giunte finalmente vicino all’albergo, dove c’era il “nostro” supermercato di fiducia, quello dove compravamo il makgeolli per intenderci. Siamo entrate per cercare la cena, e mentre con l’app di google traslate cercavo di capire cosa stessi comprando, mi avvicina una signora anziana e mi indica un prodotto. Metto la mano sul cuore e le dico “I’m vegan”. La signora mi indica il prodotto che ho in mano dicendomi: “No vegan” e si allontana.

Dopo meno di due minuti, la vedo ritornare da me, ha una confezione di cibo fresco in mano, me la porge e sorridendo mi dice: “Vegan!” e si allontana.

Ora capite un po’ di più perché li amo?
Mi sono commossa. Da vegana, ma diciamo da italiana, non sono abituata a queste gentilezze da persone perfettamente sconosciute.

Se poi volete sapere cosa mi aveva portato, erano degli involtini di riso, avvolti da del tofu fritto sottile (buonissimi).

Prima di chiudere il post del mio terzo giorno a Kyoto, voglio fare una mia personale, riflessione, quindi potrebbe non corrispondere perfettamente alla realtà delle due città, ribadisco, solo una mia impressione tra Osaka e Kyoto.
Osaka è una città giovane, vivace, piena di giovani, veloce, rumorosa che ti prende proprio per questo. Kyoto è una città più pacata, calma, più “signorile” e l’età media delle persone è più adulta. Hanno un fascino decisamente diverso tra loro.

*Spedizione bagagli = in Giappone c’è la possibilità di spedire i propri bagagli da hotel a hotel. In questo modo viaggi leggero, senza portarti dietro le valigie ingombranti. Il nostro servizio di spedizione aveva come logo mamma gatta che portava il micetto (dove quest’ultimo era la metafora delle nostre valigie “in mani sicure”. Adoro i giapponesi).

*Golden Week = in Giappone è un periodo in cui cadono alcune festività pubbliche tra il 29 aprile e il 5 maggio, e quindi tantissimi giapponesi sono in ferie e in “giro”.

*Love Hotel = sono gli “alberghi dell’amore” o per alcuni solo e semplici “alberghi del sesso”. Posso essere usati per alcune ore o per tutta la notte, la privacy e totale, si possono scegliere i tipi di stanza e il prezzo disposti a pagare.

*baka = stupido, idiota o sciocco.

KYOTO (The second day – trovarsi per un attimo in un BL)


Il secondo giorno a Kyoto piovigginava a intervalli, ma questo non ci ha minimamente fermato. Prima una veloce colazione. Paola con il suo matcha latte e il dolce preferito alla mattina, il *Baumkuchen giapponese. Nel frattempo io m’illudevo, ancora, ordinando l’ennesimo caffè small, ma arrivava sempre una tazza grande di brodaglia bollente (questo fino a quando non ho imparato a far colazione direttamente in stanza, in altro modo).

Il giorno era dedicato alla foresta di bambù di Arashiyama, al sentiero del filosofo e a qualche tempio.

La foresta di bambù era una delle cose che volevo assolutamente vedere nel mio viaggio in Giappone. Sinceramente non è una foresta di bambù, è un corridoio di bambù. Carino per carità, ma le foto che vedete numerose in rete, riguardano quasi esclusivamente quel corridoio.

Mi sono divertita molto di più nel passeggiare nella foresta intorno, e ho scoperto la mia grande passione di questo Japan tour 2024, fotografare statuette di animaletti vari.

Quell’animaletto con il cappellino che vedete, rappresenta Tanuki, un cane procione, porta fortuna. In una mano tiene una bottiglia di sake e una lettera di credito, simboli della buona fortuna nella vita, compresa quella negli affari. Il gufo a lato porta sempre fortuna e in più protegge dalle avversità.

Dopo aver fatto anche una mini passeggiata sul sentiero del filosofo (ahimè la fioritura era ormai un ricordo e quindi in una giornata bigia era meno poetico), ci siamo avviate alla fermata del bus, quando mi si è parato davanti uno scenario che mi ha fatto quasi scendere la lacrimuccia, ho visto il Ponte Togetsukyo.

Lo so a voi non dirà niente, ma a me, consumatrice di lunga data di bl giapponesi, è stato come entrare per un attimo nel dorama. Su quel ponte è stata girata una scena emozionante di Kimi ni wa Todokanai (I can’t reach you).

Preso il bus, ci diamo dirette al tempio Tenryu-ji, considerato dall’unesco patrimonio dell’umanità, con dei bellissimi giardini zen. Tranquille non vi tedio con i momenti culturali, perché ormai ero caduta nella mia nuova passione: fotografare statuette di animali.

In Giappone la parola per dire rana è “kaeru” che significa anche “ritorno”. La rana quindi è diventata il portafortuna di chi viaggia, così si assicura un ritorno sicuro. Il senso “ritorno” va oltre ai viaggiatori, è il ritorno di denaro e di fortuna. Mi dovevo comprare una rana in Giappone e non l’ho fatto.  
Ragazzi, mi tocca tornare là per comprarla!

Il tragitto con il bus verso il santuario di Nyan Nyan-ji (il santuario dove i monaci sono gatti) ci dondolava e ci faceva appisolare, quando all’improvviso Paola mi dice: “Eva! Scendiamo a vederla da fuori!?”. Stavamo passando, per caso, davanti al Toei Kyoto Studio Park, dove da poco avevano messo l’installazione “Evangelion Kyoto Base”.
Ve l’ho detto vero che ho un’amica otaku da almeno 10 vite precedenti?

Siamo scese, ma che fai, se lì, non entri? Quindi siamo entrate al Toei Kyoto Studio Park, ci siamo fatte la foto sull’evangelion e abbiamo girato per tutto il Toei.

Evangelion Kyoto Base

Dopo aver speso, nel parco, soldi in cose assolutamente inutili ma irrinunciabili, abbiamo proseguito verso la nostra destinazione, il santuario dei gatti.

Questo Santuario dedicato ai gatti ha aperto abbastanza recentemente, nel 2016.  Solo nel 2022 ha ordinato monaco un gatto, non loro, che veniva sempre al santuario: Mayo. Dicono che Mayo adempiva i suoi doveri di monaco, accogliendo i visitatori e raccogliendo i loro “desideri” (gli ema giapponesi). Purtroppo Mayo non fa più parte di questo mondo.

Ora, sono sincera, a me è piaciuto (del resto coabito con cinque gatti), ma dal “percepire” veramente questo luogo come santuario a vederlo come posto per acchiappare turisti, è un attimo.

Gli unici gatti che ho visto in giro, sono quelli delle foto, statue. Poi magari siamo state sfortunate e quel giorno tutti i gatti erano a dormire in altri posti, chi può dirlo?

Il lungo viaggio di ritorno ci ha riporto verso Kyoto città. Una volta arrivate abbiamo deciso di cenare fuori, e di farlo a Nishiki, il mercato di Kyoto.

Nishiki, il mercato di Kyoto

Momento cultura. Inizio
Il mercato di Nishiki è stato fondato 400 anni fa, quello di oggi è diverso da quello originario, che era un mercato di pesce all’aperto.
Oggi è una lunga galleria di circa 400 metri di lunghezza e poco meno di 4 di larghezza, dove sono stipati 130 venditori. Vendono quasi di tutto, vestiti, te, bacchette, sakè, utensili, stoviglie, scarpe, pesce fresco, timbri, dolci, e così via, insomma un po’ di tutto.  Ci sono anche tantissimi ristorantini.
Il mercato è molto frequentato (si vede dalla foto, in quel momento non era neppure molto pieno) dai turisti, ma anche dagli abitanti di Kyoto.
Momento cultura. Fine

La fine del secondo, intenso, giorno a Kyoto era giunto alla fine e l’ho terminata davanti alla mia prima tempura di verdure made in Japan. Il fatto che ci siano due birre insieme al cibo è del tutto casuale (credeteci…).

Kyoto – Nishiki – Tempura di verdure

Dopo questo saremmo andate a riposare. Il terzo giorno a Kyoto ci aspetta.

*Baumkuchen giapponese = Il Baumkuchen è un dolce di origini tedesche. I giapponesi lo hanno fatto proprio. Il nome del dolce (in tedesco) significa “torta albero”, deriva dal fatto che ha strati concentrici interni che lo fanno assomigliare alla sezione di un tronco d’albero tagliato.

KYOTO (The first day – Obiettivi e makgeolli )


Il viaggio verso Kyoto è stato lungo, abbiamo preso tre treni, non che la cosa mi abbia disturbato. Nei viaggi lunghi leggevo o mi perdevo nell’osservare la “fauna” umana che li riempiva e svuotava a ogni stazione.

Una volta giunte a destinazione nel nostro bellissimo albergo, posate le valigie, siamo subito partite verso la zona templi. Vi tranquillizzo non parlerò di tutti i templi che abbiamo visitato (sono tanti e il mio goshuin ne è testimone), ma ogni tanto di qualcuno si.
Il primo tempio è stato il kinkaku-ji temple, conosciuto anche tempio del padiglione d’oro, e nonostante la giornata non fosse soleggiatissima, la foto che ho fatto, ne fa capire il motivo.

Il kinkaku-ji è chiamato anche tempio del padiglione d’oro

Momento culturale. Inizio
Il tempio inizialmente fu costruito nel 1397 come abitazione dello shogun Ashikaga Yoshimitsu. Dopo la sua morte, il figlio convertì la villa in un tempio zen.
Come quasi tutti i templi e i castelli in Giappone, essendo costruiti in legno, fu distrutto dagli incendi. Questo è il motivo per cui sono quasi tutti ricostruiti e ristrutturati.
Momento culturale. Fine

Nel parco del tempio, lungo il sentiero, ti trovi a lato queste incisioni su pietra (presumo rappresentino il Buddha). Dovevi lanciare una monetina e centrare le ciotole. Se ci riuscivi, avresti avuto dalla tua la fortuna (e i monaci molte monetine come offerta). Non ci crederete, ma al primo tiro ho centrato la ciotola di pietra. Credetemi non era facile ma questo viaggio, lo dico da quando ho deciso di farlo, era baciato dalla fortuna.

foto non mia, del resto non potevo, insieme, lanciare la moneta e fotografarmi

Altra particolarità che abbiamo trovato all’interno, ma che potete trovare ovunque, sono i secchi d’acqua, per strada, vicino alle case e i sekimori ishi in alcune zone.

I secchi d’acqua servono come prevenzione negli incendi. In Giappone, specialmente nei piccoli centri o nei quartieri più “antichi”, le case sono costruite in legno o parzialmente con esso, e i secchi d’acqua fuori alle case, servono per bloccare immediatamente un inizio incendio nella via.

Mentre i sekimori ishi, delle pietre con annodato un cordino nero, servono ad avvisare che di lì non si può passare, in pratica un divieto d’accesso antico.

Kyoto è l’antica capitale e quindi è piena di templi, zone d’interesse storico, santuari, giardini zen a secco e verdi. Ho fatto moltissime foto; a rappresentanza metto questo collage che “parla” della tomba di una principessa, del verde dei loro parchi e di un Kami*.

Il pomeriggio del primo giorno a Kyoto siamo andate all’Horin-ji temple (daruma-dera), il tempio dei Daruma di Kyoto (ne esiste uno più grande a Osaka).

I Daruma e un Daruma ricoperto di Ema

I Daruma, sono bambole votive giapponesi, rappresentano Bodhidharm, il fondatore e primo patriarca dello Zen. Usando un inchiostro nero, bisogna disegnare un solo occhio (o il cerchio dell’occhio), esprimendo un desiderio/obiettivo che si vuole raggiungere.
Quando l’obiettivo è realizzato, si deve disegnare anche il secondo occhio (o cerchio il dell’occhio) e riportarlo al tempio dove si è preso.  Se però entro un anno l’obiettivo non è raggiunto allora il Daruma deve essere bruciato.

Io ho preso un Daruma, non ho ancora espresso l’obiettivo, devo ponderare bene prima, cosicché si realizzi e sia obbligata a tornare in Giappone al tempio dove l’ho preso!

Il primo giorno a Kyoto volgeva al termine, e quindi vuoi non andare nuovamente in un *izakaya, fronte bancone, a mangiare? Stranamente vedete ancora della buonissima *nippon biru in foto.

Infine nota aggiuntiva dell’ulteriore dipendenza che ho creato a Paola. Anche se eravamo in Giappone, le ho fatto assaggiare il *makgeolli.

Inutile dirvi che è diventato il nostro rito serale la sera prima di dormire, mezzo litro in due, contenendoci, solo per non finire tutte le bottiglie acquistate, in una sera (Se continuate a sospettare che questa sia anche una vacanza alcolica, un pochetto, continuate, ad avere ragione).

*Kami = indica una divinità o uno spirito soprannaturale. È tradotta con la parola  “dio”, ma non esattamente questo, o meglio non solo.  E’ considerato anche come un principio, una forza della natura, uno spirito che alberga nelle e piante o nelle montagne (per esempio) e chiaramente anche come divinità.

*Izakaya = un locale dove sedersi per bere e mangiare qualcosa, usato dai giapponesi come cena post lavoro.

*nippon biru = letteralmente birra giapponese (credo di non aver mai bevuto così tanta birra in vita mia, come in questo viaggio)

*makgeolli = Il makgeolli è un vino di riso coreano, è l’alcolico più antico mai prodotto in Corea (Vi avviso, attenzione nella sua assunzione, crea dipendenza).

PS: La foto finale qua sotto è stata fatta per la sorpresa nel vederli.
Se vi domandate se sono impazzita, no, non lo sono. In Giappone, non esistono cestini in giro per le città, l’immondizia che produci la devi portare a casa e smaltirla lì. Quindi quando ho visto (all’interno di un complesso di templi) questi due cestini, ho pensato “Esistono!”

Esistono!

OSAKA (Wei Wuxian e il romanticismo 2.0)


Il ritorno da Nara nella carrozza rosa dedicata alle donne, ci aveva riportato affamate a Osaka, però prima di riempire lo stomaco, abbiamo fatto un salto a Nipponbashi, il quartiere otaku.

Ho un’amica otaku, fin nella più profonda cellula interna, e ho commesso l’errore di farle conoscere, tempo fa, Wei Wuxian (leggasi Mo Dao Zu Shi ovvero Il gran maestro della scuola demoniaca). Nonostante lei abbia già comprato un’action figure che lo rappresenta, siamo andati alla disperata ricerca di un’altra action figure specifica. Ricerca infruttuosa, nonostante abbiamo fatto una ricerca in più negozi, ahimè (ma conoscendola so che non è finita, ci toccherà tornare in Giappone).

Lo stomaco reclamava la sua parte e quindi ci siamo decise di metterci alla ricerca di un localino per mangiare, la scelta è caduta su una “rameria”. Il locale era il classico izakaya*

Ed ecco a voi, il mio primo ramen, vegan, e stranamente una birra giapponese sullo sfondo. Era buonissimo (della birra neppure lo specifico) e mi dispiace di non esser più riuscita a mangiare ramen in Giappone, dovrò porci rimedio e ritornarci!

Post cena, decidiamo di ritornare all’albergo a piedi, nel camminare incrociamo più volte i negozi “acchiappa soldi”. Sono i Gashapon, negozi, letteralmente, ripieni di macchinette distributrici di gadget (di cui metto foto non mia), sono ovunque.

All’interno trovi anche le classiche macchinette che ci sono anche da noi, quelle con la pinza a tre punte, per cercare di acchiappare i peluche situati all’interno, che non riesci a prendere mai. Avrei voluto tanto prendere uno di questi peluche, ma saggiamente mi sono trattenuta, avrei speso tutti i soldi del viaggio lì!

Lo volevo tanto, ma tanto, uno di questi peluche, dovrò porci rimedio e ritornarci!

Superato il temibile pericolo della macchinetta dei peluche, ogni due per tre, incrociavo questi distributori di bevande (non scherzo sono ovunque e tantissimi), vuoi non prendere un buonissimo succo di mela? (Hirosaki ha lasciato il segno)
Ora non so voi, ma di notte, vedermi la città costellata di queste luci colorate ad altezza uomo, me la rendeva stranamente romantica.

romanticismo 2.0

Quella sarebbe stata la nostra ultima notte a Osaka (per il momento), il giorno dopo saremmo partite per Kyoto, dove ci saremmo fermate per qualche giorno. L’ultimo saluto alla città è stato, in notturna, con questa foto dalla camera dell’albergo.

La torre Tsutenkaku, simbolo di Osaka

*Izakaya = la parola è composta dalle parola “i” (sedersi), saka (bevanda alcolica) e ya (negozio). In pratica un locale dove sedersi per bere e mangiare qualcosa, usato dai giapponesi come cena post lavoro. Hanno quasi sempre, all’ingresso, quei tavoli, lunghi e stretti, fronte cuoco, quelli che ti fanno sembrare di essere in un dorama.

NARA (come farsi pizzicare il sedere da un cervo)


Goshuin dentro lo zaino, quest’ultimo in spalla, ci siamo dirette ai trasporti pubblici per andare in direzione Nara.

A proposito di trasporti pubblici (efficientissimi in qualsiasi posto siamo andate), in questa sede faccio un sentito ringraziamento a Paola, che ha fatto da “public transport navigator”. Senza lei, sarei riuscita a spostarmi lo stesso (forse), ma avrei impiegato almeno il triplo del tempo, prendendo bus sbagliati e/o direzioni della metro errate.

Nara è grande, molti sono i suoi templi, e noi ne abbiamo visitati alcuni, tra cui il Kohfuku-ji, Todai-Ji, Nigatsu-do (il momento cultura lo rimando alla fine del post) e il Santuario Tamukeyama Hachimangu. Di quest’ultimo vi parlo subito, perché per me rimarrà il santuario shintoista delle colombe.
Sappiate che se fossi vissuta ai quei tempi sarei stata shintoista (ma anche parzialmente buddista).

Il Tamukeyama Hachimangu Shrine è il santuario dedicato all’adorazione del kami Hachiman, dio della guerra, dei samurai e protettore del popolo giapponese.
Gli ema* in questo santuario non sono di legno, ma sono dei cerchi di carta con stampato due colombe che tubano e formano un cuore. Ora come un dio della guerra abbia come simbolo un cuore e due colombe che tubano, è una cosa che solo in Giappone e il suo sincretismo può accadere (ve lo già detto quanto li amo?).

Gli ema del Tamukeyama Hachimangu Shrine

Chiaramente qui ho espresso il desiderio e appeso l’ema, e no, non lo trovate nella foto, l’ho opportunamente ritagliata. I desideri per realizzarsi devono rimanere segreti fino alla loro realizzazione.

Nara ha un’estensione territoriale importante, e al suo interno vi è un parco dove i cervi girano liberi. Sono cervi ormai addomesticati dalla continua presenza dei turisti e abituati al contatto umano…. a volte fin troppo.

All’interno troverete dei venditori di “biscotti per cervi”, in modo da potergli dare da mangiare senza dargli del cibo nocivo per loro. Se voi farete l’inchino di saluto e rispetto, loro lo faranno a voi, poi, però dovrete dargli un pezzo di biscotto!

Come ho scritto sopra a volte son troppo abituati al contatto umano, tanto che un cervo avendo capito che ero “un’umana detentrice di biscotti nella borsa”, mi ha seguito e pizzicato con la bocca, almeno un paio di volte, il sedere.

Momento del reciproco rispettoso inchino e quello dove il cervo mi ha pizzicato il sedere

Momento cultura. Inizio
Sapete perchè Nara è pieno di cervi? I cervi, nello shintoismo, sono considerati messaggeri di Dio, e quindi intoccabili.
Momento cultura. Fine

All’interno del parco e dei templi abbiamo girovagato a lungo prima di andarcene e nel farlo, ho letto che il complesso dei templi e santuari di Nara è gemellato con il cammino di Santiago. Come amo queste fusioni oriente/occidente.

Spesso all’interno dei templi buddisti potete trovare delle stoffe colorate appese, esse rappresentano i cinque tipi di Buddha Dhyani, e ogni colore ha un significato:
BLU – la compassione verso tutti gli esseri senzienti e lo spirito di pace;
GIALLO – la Via di mezzo dell’insegnamento del Buddha Shakyamuni, lontana da qualsiasi estremo;
ROSSO – i doni della pratica spirituale e meditativa;
BIANCO – la purezza e la liberazione;
ARANCIONE – la saggezza dell’insegnamento del Buddha.

Non sono una grande “fotografatrice” di templi e monumenti, a parte qualcuno. Come avrete notato sono altre le cose che mi colpiscono e attirano la mia attenzione, ma ci sono scorci che mi piacciono, questa foto sotto, è uno di questi.

Al ritorno, verso la nostra ultima sera/notte a Osaka, abbiamo incontrato un mercatino in una piazza, una specie di piccolo bio mercatino, ed io da vegana mi sono “commossa” (perché oggi non è così semplice essere vegani in Giappone) davanti a una bancarella di dolci vegan.

Momento veganesimo che è in me. Inizio.
Il Giappone è stato per secoli un paese vegetariano (dopo l’arrivo dei buddisti), o quasi, il pesce era consentito. Successivamente nel 675 l’imperatore Tenmu emise una legge imperiale in cui si proibiva il consumo di carne animale. Nel decreto era illegale consumare carne di manzo, cavallo, cane, pollo e scimmia, ed era punita severamente la sua inosservanza. Secoli e secoli dopo, con l’arrivo dei gesuiti portoghesi, e successivamente con gli inglesi, e la loro cocciutaggine (gli occidentali e i loro tentativi di colonizzazione esportano sempre il peggio), si ruppe questo tabù e da allora il consumo di carne è stato un continuo incremento, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, e con esso l’aumento delle malattie legate all’eccessivo consumo di carni e grassi animali.
Momento veganesimo che è in me. Fine

Nella metro di ritorno a Osaka ho scoperto l’esistenza in Giappone dei vagoni rosa della metro, in cui in determinate ore possono salire solo donne (di solito orari di punta e dopo una certa ora). La foto non è mia, ma recuperata dalla rete.

Questa iniziativa è partita nel 2005 quando vengono istituite. Questo a causa del triplicarsi, dal 1996 al 2004, dei casi molestie sessuali sui mezzi, con la scusa del sovrappopolamento.

Ora dovrei parlarvi dell’ultima mia sera a Osaka prima di partire per Kyoto, ma sono stanca io di scrivere, figuratevi voi di leggere. Farò un breve post domani per quello.

Ora invece come scritto all’inizio…

Momento cultura. Inizio
Kohfuku-ji Temple: era il principale tempio buddista del clan Fujiwara, rimase un centro importante per tutto il tempo in cui il clan prosperò. Il tempio non solo era un importante centro per la religione buddista, ma manteneva anche l’influenza e controllo sul governo imperiale, spesso anche con “mezzi aggressivi”.
Sappiate che a quei tempi i monaci buddhisti erano molto meno pacifici di quelli attuali.

Todai-Ji Temple: era un centro per rituali per la pace della nazione e la prosperità del popolo, al suo interno formavano monaci eruditi che studiavano la dottrina buddista.

Nigatsu-do Temple: è una delle strutture importanti all’interno del complesso del Tōdai-ji, comprende, il Nigatsu-do a sua volta comprende diversi edifici.
Momento cultura. Fine

Ema Giapponesi = Piccole tavolette di legno nelle quali i fedeli scrivono desideri e/o preghiere. Vengono poi appese all’interno della zona del santuario, così che i Kami, le divinità Shintoiste, possano leggerli ed aiutare le persone.

OSAKA BY NIGHT (tra odore di fritto e neko)


Ho preso quattro aerei in due giorni, di cui uno intercontinentale, uno da uno stato all’altro e due voli interni, per ritrovarmi verso sera ancora a Osaka.

Avevamo appuntamento per cena con due amici di Paola, anche loro in transito a Osaka, nel loro viaggio in Giappone, ma prima, avendo un’amica otaku fino al midollo ed essendo l’ultimo giorno della Given exhibition a Osaka, vuoi che lei non sia andata di corsa (stava per chiudere) a vederla?

Io sinceramente no, io anelavo alla doccia della camera d’albergo, così ci siamo separate, ci saremmo ritrovate dopo per andare a cena con i suoi amici.

Paola è andata alla Given exhibition, ma mancando meno di dieci minuti alla chiusura, non volevano farla entrare. Questo fino a quando, visti i lucciconi (e suppongo la sua insistenza), non si sono mossi a pietà e l’hanno fatta entrare (con il suo massimo godimento, anche se ha dovuto vederla un po’ di corsa) e di cui abbiamo prova, grazie alla regia che ci manda diapositiva.

Given exhibition presso Animate Osakanipponbashi

Nel frattempo io ero nel bagno dell’albergo che litigavo con la doccia, non capendo come funzionava… finendo per fare il bagno, al suo posto, per disperazione (il giorno dopo ci siamo fatte dire come funzionava, e quindi mi sono sentita molto baka*, dopo la spiegazione da parte degli addetti).

In qualche modo siano arrivate all’appuntamento stabilito, sotto il Glico a Namba. Fino a quel momento io non sapevo che cosa fosse il Glico, e cosa rappresentava.
Il “Glico man” è un’insegna luminosa rappresentante un corridore con le braccia alzate che torreggia a Dotonbori, l’aerea commerciale di Namba, è divenuto il simbolo stesso della città.

In questo caso la foto non è mia, non sono riuscita a scattarla per la marea di gente, era per farvi vedere di cosa stavo parlando.

Osaka è una città molto viva e giovane, leggevo che a molti non era piaciuta, non “diceva molto”, io invece l’ho amata (lo so, mi direte ma tu cosa non hai amato del Giappone?!).
Ho amato la sua confusione ma con lo spazio vitale, ho amato tutte le sue luci, ho amato la popolazione così giovane e viva, ho amato tutte le sue biciclette, quei fili della corrente aggrovigliati e la puzza di fritto che aleggia la sera a Dotonbori, quella che t’impregna i vestiti anche se sei all’aria aperta.
L’ho amata. Punto.

Dotonbori – il “naviglio” di Osaka

Abbiamo passeggiato alla ricerca di un posto dove cenare, praticamente ogni metro c’è un locale dove mangiare. Mentre scegli sei circondato dagli odori del cibo e dalle luci colorate, insomma un luna park “mangiogodereccio”.

Dopo cena ci siamo incamminate verso l’albergo, incrociando anche un neko* che, da una via laterale accanto a un tempietto, osservala la città e le persone, facendosi coccolare da quest’ultime (chiaramente l’ho coccolato anche io).

Io amo i gatti (ne ho cinque), amo gli animali in genere, e ho notato che, diversamente da noi, il micio in piena città con la folla, non aveva paura degli umani.

La seconda serata a Osaka, ma effettivamente la prima, si concludeva così, con il cominciare a rendermi conto effettivamente, che sì, ero davvero in Giappone e non stavo sognando.

Il giorno dopo ci aspettava Nara, i suoi cervi e i suoi templi, ma quello è un altro post.

*baka = stupido, idiota
*neko = gatto

HIROSAKI (The second day – Come passare da un Tempio al Sidro)


Il mio secondo giorno in Giappone è stato sempre a Hirosaki, avevamo quasi tutta la giornata a disposizione, prima di riprendere l’aereo e lasciare il nord del paese.
La destinazione è stata il primo tempio dei tanti che avremmo visto in seguito. Abbiamo usato i mezzi locali (neppure vi dico dell’efficienza dei mezzi pubblici che abbiamo trovato in ogni luogo, sia esso sperduto o no) e ci siamo dirette al Saishoin Temple.

Breve momento culturale.
Il tempio è stato costruito per guardare dall’alto (e sorvegliare) il castello di Hirosaki, che si trova a poco più di un chilometro di distanza. La Pagoda a cinque piani è stata designata come bene culturale importante a livello nazionale.
Fine momento culturale.

Saishoin Temple e l’immancabile torii

E’ stata la mia prima esperienza in assoluto in un tempio buddista, non parlo da spirituale mistica, ma vi posso assicurare che entrare e sentirsi avvolti da un’aura particolare ed essere un tutt’uno con il posto, è stato un attimo. Forse perché il tempio non era affollato, era silenzioso, con una leggera brezza e il sole che alimentava i colori.

Nei limiti della mia conoscenza ho cercato di essere rispettosa delle loro usanze, di cosa si doveva fare. Ho scoperto quindi che la fontana con il “mestolo” ha un suo scopo ben preciso, prima di entrare devi purificarti e sciacquarti le mani e la bocca. Ammetto che con la bocca non l’ho fatta, ma a onor del vero non ho visto nessuno farlo mai, neppure degli abitanti del luogo, in nessun santuario o tempio.

La foto sopra, la amo particolarmente, la fontana purificatrice con petali di ciliegio che pigramente galleggiano. Un vero peccato che non possiate sentire il suono dell’acqua che lentamente scorre.
Quella sotto, invece, è una fontana con una struttura più facile da trovare nei templi.

Per entrare nel tempio vero e proprio, altra usanza è togliersi le scarpe, lasciarle all’ingresso e rimettersele quando esci.

Intorno al tempio si trovavano piante, fiori, “richieste” e “desideri” appesi (Ema), statue di Buddha e di animali. In questo tempio ho trovato dei fiori bellissimi, che non sfiguravano per nulla nel periodo dei ciliegi.

Le statue spesso hanno dei bavaglini rossi al collo. Da quel poco che so, alcune solo legate a protezione dei bambini (anche quelli mai nati, e in questo caso sono chiamati i bavaglini di Jizo, dove Jizo raffigura il nostro occidentale Virgilio, Jizo accompagna le anime dei bambini mai nati), altre legate alla fecondità, altre alla protezione dei viaggiatori, altre ancora sempre alla fecondità ma della terra, questo a seconda del tempio o santuario e di cosa raffigura la statua.

Quel giorno ho scoperto anche l’usanza del goshuin, quindi nel mio primo tempio l’ho comprato e ho iniziato questa bellissima pratica.

Il mio goshuin con esposti alcuni dei shuin fatti

Momento culturale serio:
Il Goshuin (letteralmente sigillo rosso) raccoglie gli shuin, cioè i timbri rossi che contraddistinguono il tempio o il santuario, e una scritta fatta a mano con il pennello dai monaci. In alcuni templi ho visto anche calligrafi non monaci farlo.

Nel goshuin il monaco (o chi per lui), con i pennelli di vario spessore traccia il nome del tempio, la data della visita e altre scritte che riguardano il dio del tempio o di buon augurio.

Il mio goshuin, a parte il nome del tempio (perché lo abbiamo segnato) è un mistero per me, ma lo considero una raccolta di benedizioni o di buon augurio, magari qualche augurio si avvera (chissà prima o poi riuscirò a leggerli).
Fine momento culturale serio.

Momento profano
Il fatto poi che avessi trovato un goshuin con i coniglietti bianchi è stato motivo di immediata scelta per me. Chi ha visto il cdrama “The Untamed”, o ha visto il donghua “Il Gran Maestro Della Scuola Demoniaca”, oppure ha letto il libro “Mo Dao Zu Shi”, saprà il perché della mia scelta, che da buona fujoshi, ho considerato un segno del destino.
Per chi non ha visto nessuno dei tre, è difficile spiegare in poche righe, quindi consideratemi solo una donna con l’adolescenza tardiva.
Fine momento profano.

Terminata la visita al tempio Saishoin, siamo andate alla ricerca di un tempio a circa un chilometro di distanza. Lo abbiamo trovato, ma stavano officiando un funerale, il tempio era davvero piccolo e abbiamo deciso di andarcene.

Camminare sotto il caldo e il sole ci ha fatto venire voglia di una birra fresca (ve l’ho detto che la birra giapponese è la morte mia vero?), ma eravamo “sperdute” in un luogo dove vi erano solo abitazioni, e non trovavamo nulla fino a quando, compare alla nostra destra un piccolo bar (non so se in Giappone lo chiamano così, o hanno un altro nome) molto particolare. L’interno moderno, ben curato, e con una varietà infinità di sidro (abbiamo poi scoperto che Hirosaki è famosa e ha una grande produzione di mele. Fanno di tutto con loro, dalle torte, ai succhi di frutta, alle mele essiccate, al sidro, ad altro che non ricordo).

Il locale era vuoto, si capiva che era un locale che si animava la sera. Madre e figlio lo gestivano. La signora molto gentile si è avvicinata e ci ha portato davanti a degli scaffali pieni di bottiglie facendoci capire le varietà di sidro. Io e Paola parlavamo in italiano tra di noi chiedendoci “Lo vuoi secco? O dolce? Meglio questo o quello?”, quando ci siano accorte che il ragazzo con il cellulare in mano, volto in linea orizzontale verso noi, ci stava ascoltando.
In pratica non riusciva a capire da dove venissimo, ed era curioso di saperlo, così aveva aperto “google traslate microfono” per capire che lingua parlavamo. Lo abbiamo aiutato dicendolo noi “itariahitodesu”. Ve lo già detto vero? Vi ho detto che i Giapponesi amano gli italiani? (o almeno tutti quelli che abbiamo incontrato noi).

Alla fine ci hanno stappato una bottiglia di sidro di produzione locale, che vi giuro, mai bevuto un sidro così buono, mai!

Lo so potreste pensare a una vacanza alcolizzata tra birra e sidro, e un pochetto avreste ragione.

Abbandonati madre e ragazzo, siamo ritornate in “centro” Hirosaki. Abbiamo deciso di pranzare lì, prima di prendere il bus che ci avrebbe portato all’aeroporto di Aomori, che a sua volta ci avrebbe riportato a Osaka.

A pranzo ho mangiato per la prima volta il famoso natto giapponese, e nonostante quello che dicono sull’aspetto e odore, io l’ho trovato buonissimo, tanto che poi è stata anche la mia colazione per alcune mattine.

Il mio primo natto (con tofu fritto) giapponese e ops…
…stranamente una birra Kirin giapponese accanto

Terminato il pranzo, abbiamo recuperato le valigie in albergo e con il bus siamo ripartite verso l’aroporto di Aomori, durante il tragitto (sia all’andata sia al ritorno) le strade erano piene di queste macchine “cartone animato”. Io le chiamo così, perché così squadrate mi sembrano quelle disegnate dai bambini. Ve ne sono tantissime.

Hirosaki mi ha rubato cellule del miocardio.
Hirosaki, per me, sarà sempre Yoko e le sue amiche, il sidro, le persone che gestivano il locale, l’hanami, il festival della cittadina con le sue persone “normali”, e chiaramente, le sue mele.

PS: la foto che ho messo come copertina sono le “Ema Giapponesi”. Piccole tavolette di legno nelle quali i fedeli scrivono desideri e/o preghiere. Vengono poi appese all’interno della zona del santuario, così che i Kami, le divinità Shintoiste, possano leggerli ed aiutare le persone.

HIROSAKI (The First Day – Hanami)


A Hirosaki ci aspettava l’hanami e, anche se ancora non lo sapevamo, il festival della fioritura dei ciliegi della città.

Lasciate le valigie nell’hotel abbiamo preso un bus locale, che in pratica ci ha portato a fare il giro della cittadina e che ci ha lasciato a poca distanza dal Castello di Hirosaki, con il suo enorme e splendido parco pieno di ciliegi.

Siamo entrate nel parco a ora di pranzo, quindi dopo una piccola escursione nei giardini vicini, ci siamo fermate a mangiare a una delle tante bancarelle di cibo che ci sono all’ingresso. Ed è iniziata la magia di questo viaggio: le persone.

Nei piccoli centri, forse perché scoprivano che eravamo “itariahitodesu” (siamo italiane), siamo state accolte a braccia aperte. Ho scoperto che i giapponesi hanno una simpatia particolare per l’Italia.

Dopo aver mangiato, abbiamo iniziato a girare il parco, vi dico solo che ci siamo rimaste dal pranzo a sera inoltrata, grazie anche alla bellezza delle persone (poi vi spiego).

Ora, credetemi, ho fatto davvero fatica a scegliere tra le millanta foto, che ho fatto, quelle da postare. Ne ho scelte due, ma potrei aprire una galleria a parte.

Questa foto sotto, invece, la metto da sola per due motivi. Il primo è che di quel giorno, è quella che mi piace di più; il secondo è che mi ha insegnato a “sfruttare” al meglio anche le “situazioni negative”.

Come mi ha insegnato a sfruttare le situazioni negative questa foto?
Io volevo far la foto del ponte vuoto con il ramo del ciliegio, ma c’era questa tipa che si faceva fotografare dalla sua amica, a destra, a sinistra, in basso, in alto, fai la giravolta, falla un’altra volta, e non se ne andava mai!
Poi ho avuto l’illuminazione, la sfrutto anche io come modella. Ho scattato così una delle foto di Hirosaki che mi piacciono di più.

Due parole sul parco ve le dico, per farvi capire la sua bellezza. Il parco ha, più o meno, 2600 alberi di ciliegio, di varietà diverse, quindi con periodi di fioritura diversa. Questo fa sì che questo parco abbia una fioritura lunga, grazie a questo siamo riuscite a vederla.

Durante la notte il parco rimane illuminato e dà un’immagine ancora più suggestiva del tutto. Noi non lo sapevano, ma il Parco di Hirosaki è considerato uno dei migliori luoghi per vedere l’hanami in Giappone, e siamo capitate proprio nel periodo del festival.

All’interno del parco c’è anche il castello che è uno tra i più belli di tutto il Giappone, ed è uno dei pochi castelli originali. Il castello di Hirosaki è l’unico rimasto, del periodo Edo, integro. La maggior parte dei castelli nel tempo, tra guerre di shogunato e la fine dello stesso, oltre alla seconda guerra mondiale, sono rimasti distrutti negli incendi.

Chiusa parentesi “cultura”, riapro parentesi godimento. Il parco è davvero grande, a ogni angolo avevamo solo l’imbarazzo della scelta di cosa fotografare, ma non vi tedio, vi posto solo una foto fatta all’imbrunire, che amo particolarmente.

Poiché c’era il festival. All’interno del parco vi erano moltissime bancarelle di ogni tipo, dalle classiche di souvenir, ai vestiti, a quelle tipo luna park e chiaramente moltissime di cibo, così con il buio, io e Paola ci siamo fermate a mangiare.

Onigiri e birra giapponese, la morte mia!

Questa foto rappresenta due momenti importanti della mia vita “made in Japan”, ovvero: come io abbia da subito imparato a mangiare con le bacchette e, tenuta in mano dalla mia “partner in crime” Paola, la “biru” giapponese. La mia perdizione giapponese. Diversa da quella italiana, molto meno gasata e sempre fredda sempre al punto giusto, non ho mai bevuto così tanta birra in così poco tempo.

Il posto era frequentato dalla gente del luogo, quindi vedevi molte persone uscite dal lavoro (o dalla scuola) ancora vestite “seriamente” venire al parco, fare un giro, incontrarsi con gli amici, mangiare insieme in questi micro ristoranti, o fare dei picnic notturni nel parco. L’ingresso alla zona cibo era stupendo, un gigantesco torii capeggiava.

Come già detto, il parco era illuminato la notte, era favoloso. Ci siamo incantate a vedere un ciliegio bianco illuminato. Da quando riportato sul cartello alla base, era un ciliegio nato spontaneamente, come varietà, solo a Hirosaki. Vuoi non fotografarlo?

il ciliegio dai fiori bianchi, una varietà nata a Hirosaki

Ormai sera, ce ne stavano andando, dopo aver fotografato il ciliegio bianco, quando vediamo una signora giapponese che ci chiama e s’incammina veloce verso noi, muovendo la mano come per dirci: “Venite qua!”. Sono sincera ho pensato (e anche Paola) abbiamo combinato qualcosa, abbiamo fatto qualcosa che non va bene, e ora “ci sgridano”. Timorose abbiamo seguito la signora e… ci ha presentato ad altre due signore, che insieme con lei stavano facendo il picnic notturno.

Quando vi dico che la cosa più bella di questo viaggio sono state le persone, lo dico per proprio per quello che ci è accaduto durante tutto il viaggio, partendo da qua.

Yoko, così si chiamava la signora, insieme alle sue amiche, ci ha invitato a fare un picnic notturno sotto agli alberi di ciliegio insieme a loro. Non potete capire la nostra (felice) sorpresa. Loro non parlavano inglese (ma neppure io), noi non parlavamo giapponese (Paola lo sta studiando però). Nonostante questo, abbiamo passato ore a comunicare con loro, ridendo e scherzando (non ringrazierò mai abbastanza google traslate).

Ci hanno offerto il loro cibo, hanno stappato una bottiglia da un litro di sake, che dire buono era poco, alla fine eravamo tutte un po’ brille e sorridenti.
Posso dire che le ho amate e le amo?

Per avere un ricordo, Yoko e le altre, hanno chiesto a dei signori giapponesi che “picnicavano” non lontano da noi, di farci una foto. Siamo così diventate anche per questi signori “Itariahitodesu ka?” (Siete italiane?) mentre ci regalavano sorrisi e incredulità.

Quando è arrivato il momento di salutarci, ci hanno fatto ancora un regalo, con il cibo che ci era piaciuto, ci hanno fatto il bento (vedi foto) per il giorno dopo.
Mi ripeto: ” Posso dire che le ho amate e le amo?”

Ecco, questo è stato il nostro primo giorno in Giappone, ora capite perché soffro di “mal di Giappone”, perché li amo, e perché non vedo l’ora di ritornarci?

OSAKA (toccata e fuga verso Hirosaki)


Il primo giorno in Giappone è stato a Osaka, ma è stata una toccata e fuga, atterrate la sera prima, la mattina presto siamo ripartite subito.

Abbiamo preso il metro/treno locale che da Namba ci avrebbe portato all’aeroporto di Itami, da lì saremmo ripartite per arrivare all’aeroporto di Aomori con un volo interno, per andare a Hirosaki.

Prendere quel treno è stato come catapultarsi in un dorama: uomini in completo nero, giacca, cravatta e tracolla che andavano in ufficio; ragazzi e ragazze con le uniformi delle rispettive scuole, che si recavano a scuola. Il silenzio che avvolgeva tutto.

A Itami, nell’attesa della partenza sono riuscita a far colazione con il mio primo avocado tost, sono riuscita a prendere il pocket wifi, perché la scheda sim, acquistata mesi prima on line, ha avuto problemi di comunicazione con il mio cellulare.
Poi siamo volate verso il nord del Giappone.

Non ho foto di quella sera e mattina, a parte quello del panino che ho postato ieri. Era la mia prima volta in Giappone ed ero ancora avvolta nell’incredulità di essere lì. Per questo la foto che metto con questo post non è mia. In compenso, arrivate a destinazione a Hirosaki, da lì in poi, di foto ne ho fatte fin troppe.

Questo post, è brevissimo, è il preludio ai giorni in cui, io e Paola, zaino in spalla, abbiamo visitato una piccola parte del Giappone.

MINO AYATO


Mi sono innamorata in meno di un secondo di lui, anni fa, con una frase: “Arredare con il vuoto”.

Il mio amore per il Giappone è nato lì, sfogliando una rivista di architettura, in una frase letta per caso.

Sono consapevole che posso sembrare un po’ folle, non so neppure se riesco a comunicare con voi quello che voglio dire, se riesco a farvi capire, come una piccola frase letta per caso, abbia potuto farmi amare e innamorare di un paese di cui (allora) non conoscevo niente; eppure è successo.

Quella frase mi fece sentire a casa, avvolta in qualcosa di familiare. Percepii un modo di vivere e affrontare la vita, che in qualche modo era insita in me (non che io ne sia capace, la mia casa e la mia vita, è tutto tranne che contenuta nella frase “arredare con il vuoto”, direi di più che il mio arredatore è il Dr. Caos).

Lungi da me, ai tempi, la possibilità di approfondire e conoscere, ma rimase lì, come un piccolo seme nel cuore, in condizioni di non sviluppo. Negli ultimi anni quell’amore si è nutrito di arte visiva, di film, di libri e della loro dicotomia che ogni volta mi colpisce e affonda.

Un amore, a senso unico, durato anni. Neppure nei miei pensieri più lontani pensavo che sarei potuto andarci un giorno. Un sogno troppo grande, ed io ai sogni non credevo più.
E invece.

Invece scriverò qui del mio viaggio in Giappone di questi giorni, dell’aver scoperto che il Giappone mi ha amato, non so se quanto lo amo io, ma ogni giorno in cui sono stata, mi ha avvolto del suo amore e della sua gente.

Sono ritornata in Italia da pochi giorni e già manca, soffro di “mal di Giappone”. Scrivere dei giorni passati lì e mostrarvi le foto amatoriali (quindi perdonate se non sono perfette) che ho fatto, è il mio modo di lenire la sua mancanza.

Il Giappone dopo avermi conquistata con la frase “Arredare con il vuoto” mi ha fatto innamorare perdutamente di se con la sua “La presenza dell’assenza“.

Ps: se vi chiedete il perché del titolo… non lo so!
Me lo sono sognata questa notte. Non conosco nessuno che risponda a questo nome, non so neppure se sia un nome maschile o femminile, o se Mino sia un loro cognome, ma mi sembrava giusto dare questo titolo al mio primo post avendo Morfeo inviatomi questo misterioso input!

(C’è qualche Mino Ayato per caso nei dintorni?)

C’è chi in viaggio fotografa solo architettura e paesaggi e poi ci sono io.
Ecco a voi un buonissimo panino made in Japan imbottito di noodles!
(come fai a non amarli!?)