KYOTO (The last day – Inari e Il gran maestro della scuola demoniaca )


Il quarto giorno a Kyoto sarebbe stato anche l’ultimo. La mattina dopo saremmo partite.
Ci siamo alzate presto, avevamo lasciato come ultimo luogo da vedere l’Inari.

Ci siamo dirette alla metro, qui c’era un bambino di circa otto anni disperato (intendo proprio disperato disperato) che frugava nel suo zainetto con i lucciconi agli occhi, agitatissimo. Mi sono bloccata, so che in Giappone la sicurezza è tale che anche i bambini possono andare in giro da soli, e che nella loro cultura si educano subito all’indipendenza, ma a me i lucciconi (di quel tipo, non quello dei capricci) di un bambino smuovono un istinto che di solito non ho, quello materno.

Ho capito che non trovava l’abbonamento, o i soldi per il biglietto, per andare a scuola. Agitatissimo, con il cellulare, deve aver chiamato a casa, ma la risposta non lo ha calmato, anzi, chiuso il telefono, ha svuotato del tutto lo zainetto per terra. Ha trovato delle monete, ha fatto il biglietto ed è corso via. Sono a quel punto sono riuscita ad andarmene.

Non so il motivo per cui ho ancor in mente quel bambino, il suo affrontare da solo le difficoltà e gli imprevisti della vita, in una metro (metro nella quale io, da adulta, non sono ancora capace di muovermi, per dire), così piccolo, così solo in mezzo a centinaia di persone me l’ha inciso nel cuore.

I treni, nell’orario in cui li abbiamo presi quella mattina, sono pieni di uomini e donne che vanno al lavoro e di ragazzi e ragazze con le loro divise scolastiche (quelle classiche da manga per capirci). Continuo a ripeterlo lo so, ma la sensazione di meraviglia è sempre stata quella, sembrava di essere in un manga o in un dorama.

Infine siamo giunte Santuario di Fushimi Inari-taisha. Per gli amici Inari.

Momento cultura. Inizio.
Il Fushimi Inari-taisha è il santuario principale dedicato al Kami Inari (Kami della fertilità, del riso, dell’agricoltura, delle volpi, dell’industria e del successo terreno). Il percorso inizia alla base di una montagna che porta lo stesso nome Inari (loro la chiamano montagna, ma è alta poco più di 230 metri). Bisogna attraversare 1000 torii per arrivare alla sua sommità.

Nel percorso si trovano molte statue che raffigurano delle volpi; sono considerate le messaggere divine del Kami Inari. Secondo la mitologia, alle volpi piace mangiare il tofu fritto (devo essere un po’ volpe dentro).

I torii sono portali, sono a migliaia in Giappone, sono simboli dello shintoismo, una religione molto legata alla natura. La loro presenza avvisa di un ingresso a un santuario o a un luogo sacro. Evidenzia il luogo che separa il regno degli umani dal regno dei Kami. Attraversandolo fai il primo atto/rito di purificazione per entrare nel luogo sacro.

L’origine dei torii è antica. La leggenda racconta che Amaterasu (Kami del sole) per sfuggire a suo fratello Susanoo (Kami delle tempeste), si rinchiuse all’interno di una caverna. Essendo la dea del sole, il suo nascondersi in una caverna, causò un’eclissi.

Gli altri Kami, preoccupati di non vedere mai più la luce del sole, posero davanti alla caverna in cui si era rinchiusa, dei trespoli giganteschi, in modo che degli uccelli dalla lunga coda cantassero per la dea.

Amaterasu incuriosita dal canto degli uccelli apri un varco per vedere. A quel punto un Kami si lancio all’interno della caverna, e lo aprì del tutto. Da quel momento il sole ritornò a splendere sul mondo.

I torii sono quei giganteschi trespoli. Discendenti dai primi trespoli posto dai Kami, dove si appoggiarono gli uccelli, che cantando attirarono Amaterasu.
Momento cultura. Fine

Potevano mancare i miei animaletti? (intendo quelli a destra, sia ben chiaro)

Nonostante la levataccia mattutina, l’Inari era già affollato, siamo riuscite a fare delle foto senza la folla, grazie alla pazienza di aspettare, nel punto che ci piaceva, che non passasse nessuno. Scese dalla montagna, comunque, la golden week colpiva ancora.
Prego la regia di mandare diapositiva della strada che porta al tempio.

Abbiamo fatto ancora qualche giro per templi e poi ci siamo ritornate a Kyoto città, e li ho conosciuto il male: Yodobashi.

Yodobashi non so descriverlo se non come il male, è nato come grande negozio di elettronica, man mano ha aperto delle filiali, e negli anni si è trasformato praticamente in un centro commerciale su più piani (quello di Kyoto) dove trovi di tutto, elettronica, cancelleria, libri, ristoranti, vestiti e cose assolutamente inutili che devi assolutamente comprare. Quindi un luogo dove compreresti di tutto, specialmente quello che non ti serve.

Anche il male, però, ha il suo lato buono, da Yodobashi all’ultimo piano nel settore libreria e manga, abbiamo trovato due cose interessanti.
La prima: una vera macchina italiana per fare il caffè espresso, dove fanno il caffè espresso vero, ed è pure buono!
La seconda: scaffali di manga bl, dove Paola ha avuto lo stesso momento di commozione che io ho avuto al Ponte Togetsukyo. Chiaramente ha fatto acquisti.

Io invece sono entrata in crisi mistica davanti alla foto qua sotto: Manga scritto in cinese, volume uno e due, doveva uscire ancora il terzo. Quest’ultima cosa mi ha impedito di comprarli perché pensavo: “Ma poi non riesco più a prendere il terzo, perché ritorno in Italia”. Classico esempio di quando ragioni male! Avrei dovuto pensare: “Il terzo? Devo ritornare, assolutamente qui in Giappone, quando esce, per compralo”.

Mo Dao Zu Shi (Il gran maestro della scuola demoniaca)
formato manga (in questo caso in cinese), tratto dal romanzo di Mo Xiang Tong Xiu

Il nostro ultimo giorno a Kyoto terminava così. Il giorno dopo saremmo partite per una nuova destinazione, con fermata programmata a metà di qualche ora, ma questo è un altro post.

KYOTO (the third day – idiosincrasia e gialli ombrelli)


La mattina del terzo giorno, prima di uscire, tramite l’albergo, abbiamo utilizzato anche il servizio di *”spedizione bagagli”. Il seguito della mattina è stato dedicato al girone infernale “trova i biglietti”, compra i biglietti”, “trova l’ufficio giusto dei biglietti”, “rimbalza da un ufficio all’altro”, fallo un’altra volta, fai la giravolta!

Alla fine finalmente siamo riusciti ad avere i biglietti (e prenotare) per le zone (meno turistiche) dei giorni successivi, ringraziando di cuore la signora di un ufficio che al nostro terzo rimbalzo, si è mossa a pietà e ci ha fatto saltare l’ultima fila, per il ritiro biglietti.

Un parto! E’ stato un lungo parto.

Finalmente abbiamo potuto iniziare a mettere in pratica il programma della giornata, il tempio d’argento e il quartiere delle geishe.

Ancora non sapevamo la portata della *Golden Week.

Siamo giunte al Ginkaku-ji Temple, conosciuto anche padiglione d’argento. Anche questo, come il padiglione d’oro, in origine era stato costruito come residenza per uno shogun: Ashikaga Yoshimasa.

Il tempio è meno appariscente e imponente di quello d’oro, ma ha dei giardini molto belli, che la giornata uggiosa, non ha permesso di omaggiare bene attraverso le foto.

Momento cultura. Inizio
Il Ginkaku-ji Temple è uno dei templi Zen più classici del Giappone. Rappresenta un classico esempio dell’estetica wabi sabi. Estetica, che nella quotidianità di una casa, mi piace molto, e se non fossi così disordinata, applicherei nella mia casa.
Vi metto foto (non mia) per farvi un esempio.

Wabi Sabi è una filosofia giapponese applicata a ogni aspetto della vita, sia materiale sia immateriale. E’ basata sul concetto d’imperfezione, transitorietà e semplicità.

Nonostante il suo nome (e a differenza del padiglione d’oro), al padiglione d’argento manca qualcosa, cioè proprio l’argento. In origine lo shogun progettò di ricoprirlo, ma non lo fece mai.
Momento cultura. Fine

Terminata la visita al tempio ci siamo dirette al quartiere delle geishe, “inciampando” anche in un Santuario shintoista. Sopra vi ho scritto “Ancora non sapevano la portata della *Golden Week”, e nel quartiere delle geishe l’abbiamo capito….

Di geishe neppure l’ombra (ma di questo non avevo dubbi) in compenso il quartiere (ovvero la via principale, poiché le vie laterali sono interdette ai non abitanti) era ricolmo, strapieno, ripieno, di giapponesi e di turisti (specialmente di cinesi vestiti di tutto punto con i vestiti tradizionali giapponesi, li affittano in loco).

In quel luogo in quella via, la mia idiosincrasia per la “folla follosa folleggiante” è cominciata a risalire, e le mie espressioni visive a mutare in sguardi omicidi. Infatti, l’unica cosa che ho fotografo di quella via è stato questo, un risciò giapponese, con a lato (non fotografato) in tutina nera il suo proprietario, in attesa di qualcuno che volesse farsi un giro.

Ci siamo allontanate dal quartiere alla ricerca di un bus per ritornare al nostro albergo. I bus, però, erano ricolmi, strapieni, ripieni di persone (golden week docet) e abbiamo deciso di fare ritorno a piedi (non avete l’idea dei chilometri fatti in quei giorni).

Lungo la strada, mentre chiacchieravamo, cercando di capire la strada da fare, infilandoci in vie e viette, mi sono trovata davanti a must di molti dorama: i *Love Hotel.
Si può essere felici per così poco ed essere tremendamente *baka? Sì, si può!

Avrei voluto vedere anche gli interni, che dicono a tema, ma mi mancava la materia prima per farlo, tipo un Takeru Satoh, un Mashiko Atsuki, un Kento Yamazaki, un Dori Sakurada o un Ren Meguro.

Quindi ho dovuto accontentarmi di soffermarmi un attimo davanti con il mio ombrello giallo, e farmi fare la foto ricordo da Paola (comunque se uno dei soggetti sopra citati volesse contattarmi e verificare le stanze a tema… mi scriva pure in privato).

Notare in fondo alla strada un Torii, porta della spiritualità e alla mia sinistra, un Love Hotel, porta della carnalità.

Siamo giunte finalmente vicino all’albergo, dove c’era il “nostro” supermercato di fiducia, quello dove compravamo il makgeolli per intenderci. Siamo entrate per cercare la cena, e mentre con l’app di google traslate cercavo di capire cosa stessi comprando, mi avvicina una signora anziana e mi indica un prodotto. Metto la mano sul cuore e le dico “I’m vegan”. La signora mi indica il prodotto che ho in mano dicendomi: “No vegan” e si allontana.

Dopo meno di due minuti, la vedo ritornare da me, ha una confezione di cibo fresco in mano, me la porge e sorridendo mi dice: “Vegan!” e si allontana.

Ora capite un po’ di più perché li amo?
Mi sono commossa. Da vegana, ma diciamo da italiana, non sono abituata a queste gentilezze da persone perfettamente sconosciute.

Se poi volete sapere cosa mi aveva portato, erano degli involtini di riso, avvolti da del tofu fritto sottile (buonissimi).

Prima di chiudere il post del mio terzo giorno a Kyoto, voglio fare una mia personale, riflessione, quindi potrebbe non corrispondere perfettamente alla realtà delle due città, ribadisco, solo una mia impressione tra Osaka e Kyoto.
Osaka è una città giovane, vivace, piena di giovani, veloce, rumorosa che ti prende proprio per questo. Kyoto è una città più pacata, calma, più “signorile” e l’età media delle persone è più adulta. Hanno un fascino decisamente diverso tra loro.

*Spedizione bagagli = in Giappone c’è la possibilità di spedire i propri bagagli da hotel a hotel. In questo modo viaggi leggero, senza portarti dietro le valigie ingombranti. Il nostro servizio di spedizione aveva come logo mamma gatta che portava il micetto (dove quest’ultimo era la metafora delle nostre valigie “in mani sicure”. Adoro i giapponesi).

*Golden Week = in Giappone è un periodo in cui cadono alcune festività pubbliche tra il 29 aprile e il 5 maggio, e quindi tantissimi giapponesi sono in ferie e in “giro”.

*Love Hotel = sono gli “alberghi dell’amore” o per alcuni solo e semplici “alberghi del sesso”. Posso essere usati per alcune ore o per tutta la notte, la privacy e totale, si possono scegliere i tipi di stanza e il prezzo disposti a pagare.

*baka = stupido, idiota o sciocco.