INCROCI OCCIDENTALI


Lunedì prossimo sarò in volo per quella che, in qualche modo, considero come una seconda casa: il Giappone. Sarò troppo occupata a vivermi il momento e presumo che questo blog rimarrà fermo per qualche giorno. Vorrei, però, nel frattempo, lasciarvi un suggerimento per un altro blog, che io leggo sempre.

Lui scrive sia in italiano sia in inglese, (preferibilmente in inglese, ma anche se non sapete bene l’inglese, come me, il “traduci pagina” di google è perfetto). Ve lo consiglio, a parte che per le parole scritte, anche per le immagini. Immagini che lui stesso ha scattato nel suo immenso girovagare, per lavoro o svago, nel mondo. Alcuni suoi scatti, mi hanno colpito profondamente. Sono evocativi.

Ho conosciuto il suo blog per caso l’anno scorso, mentre cercavo di capire cosa fare nel mio viaggio in Giappone. Lui aveva postato foto e scritti di quel paese.

Da alloro lo seguo, perché mi ha porta in luoghi che probabilmente, in questa vita non vedrò mai, e mi racconta quello che vede lui, attraverso i suoi occhi e i suoi pensieri, e spesso, attraverso le sue parole ho un punto di vista che altrimenti non avrei.

Ho avuto anche la fortuna, poi, d’incontrarlo dal “vero”, a Milano, in un suo breve ritorno in Italia. Insomma, per riprendere anche quello che ho scritto ieri, un “incrocio del destino”, questa volta occidentale.

Dopo tutto questo parlare vi lascio qui la possibilità di andare sul suo blog, che si chiama “La vita è bella – Diario semiserio e surreale di vita vissuta“. Per farlo vi semplifico la vita, basta che clicchiate sull’immagine qua sotto. Perdetevi nelle sue immagini (oltre le parole), come mi son persa io.

PS: se avete voglia e tempo, oltre a lasciar un commento da lui, sarei curiosa di sapere da voi, cosa vi comunicano quelle foto, spaccati di vita di altri popoli.

DI MUTANDE E DINTORNI


A ottobre dell’anno scorso ho ripreso ad andare in palestra, questo in seguito a un’auto progetto di restyling della sottoscritta, iniziato ad agosto.

Appartengo alla categoria che “senza doccia” non riesco ad uscire dalla palestra, e quindi mi ritrovo sempre con altre donne nel post doccia a rivestirmi.
Qui nascono le differenze tra me e loro.

Vedo completi d’intimo di pizzo “mutande reggiseno abbinati” di un sexy cui daresti +9 come voto, e se non sono di pizzo, sono comunque completini che se fossi un uomo dovrei raccogliere gli occhi caduti dalle orbite.

Poi ci sono io.

Mutanda bianca alta della nonna (che tiene calda la pancia d’inverno) e reggiseno beige con spallina grossa della zia (che non lascia solchi doloranti sulle spalle).

Lo so, vi ho dato una bellissima immagine di me.

Poi mi domando come mai non ho trovato l’amore 😉

IL SOLDATO TEDESCO


“Sag Gori, er muss via! Correre! Via! Sie kommen in wenigen Stunden, subito, prendono lui!”

“Dì a Gori che deve VIA! CORRERE! VIA! Vengono in poche ore, SUBITO, PRENDONO LUI!”

Ora immaginatevi la scena.
Esterno notte.
Tempo: Seconda guerra mondiale, ultimi mesi del 1944.
Notte piena. La luna illumina parzialmente l’oscurità. Campagna veneta. Un grande casolare con annessa stalla nel nulla. Avvolto da vigneti, alberi di mele e distese di campi. Un soldato tedesco esce in silenzio dalla casa padronale, cerca di non farsi vedere e sentire da quelli della casa. Bussa piano sul portone della stalla. Il portone si apre, il soldato parla all’uomo che ha aperto: “Sag Gori, er muss via! Correre! Via! Sie kommen in wenigen Stunden, subito, prendono lui!”. Un altro veloce minuto per spiegare che accade. Il portone della stalla si chiude. Il soldato tedesco usa un altro minuto per rientrare silenziosamente nella casa padronale.
Tutta questa scena in quattro minuti.

Quei quattro minuti hanno salvato la vita a mio Zio Gregorio, detto Gori.

Perché un soldato tedesco della seconda guerra mondiale ha salvato mio zio?

Verso la fine della seconda guerra mondiale, il piccolo comando tedesco della zona, in un paese sul litorale della costa veneta, aveva deciso di spostarsi in campagna, a pochi chilometri dal paese. La probabilità che i loro stessi aerei, prima o poi avrebbero bombardato il porticciolo per distruggerlo, era alta. Requisirono, quindi, il casolare di campagna dove viveva la mia famiglia di origine da parte materna, compreso di tutto ciò che vi era all’interno.

I miei avi erano contadini, ma non contadini “ricchi” ovvero proprietari della terra e della casa dove vivevano, erano contadini poveri, quelli a mezzadria. Tutto lì intorno era proprietà di un solo “contadino”. El paron.

Sfrattarono i miei nonni, i miei zii, le zie e mia madre, allora bambina. Li obbligarono ad andare a vivere nella stalla accanto, insieme al bestiame, dandogli la possibilità di portare via pochissime cose oltre ai propri abiti.

Come potete ben pensare, questo sfratto non fece amare i soldati tedeschi alla mia famiglia. Gente armata che ti butta fuori di casa e si prende tutto quel poco che hai. Eppure accade qualcosa.

Accade che i soldati “cattivi” presero il casolare, ma subito dopo arrivarono anche gli altri soldati, quelli che avrebbero dovuto viver lì.

Arrivarono uomini grandi di età con fili bianchi tra i capelli e uomini piccoli di età, che ti domandavi se fossero maggiorenni o no. Gli uomini di età “mediana” erano pochi. La maggior parte era su fronti più “cattivi” o già morti. Alla Germania a fine guerra non rimanevano molti uomini nell’età “mediana” e reclutava di “tutto“.

Questo “tutto” fatto di ragazzini e uomini con fili bianchi tra i capelli, erano stati in gran parte obbligati ad arruolarsi. Specialmente quelli con i fili bianchi in testa. I giovani, si sa, li infiammi più facilmente e li convinci a morire per la patria.

Tutto questo “tutto” per usare le parole di mia Zia Oliva (discorsi che ascoltai molti anni dopo mentre le zie “ciacolavano” tra loro e raccontavano a noi nipoti) era magro, sporco, stanco, con più pulci addosso che cibo nelle bisacce. Anche mentre erano lì, pativano la fame perché il comando centrale li riforniva raramente. Il “tutto” erano i soldati semplici, fanteria, quelli che eseguivano gli ordini.

La mia famiglia però era stata previdente, quando aveva capito che stavano per arrivare i tedeschi da loro, avevano nascosto le poche provviste. E, a differenza dei soldati, conosceva la zona, sapeva di quali erbe/verdure potevano cibarsi e dove erano.

Nel primo periodo fecero finta di niente. Gli uni da una parte e gli altri dall’altra. Poi accadde un’altro accadde.
Accadde che soldati tedeschi con i fili bianchi tra i capelli e la mia famiglia cominciarono a socializzare. I tedeschi cominciarono a parlare delle famiglie che avevano in Germania, dei figli lasciati, della speranza che fossero ancora là e non su qualche fronte. Raccontavano delle fidanzate, delle mogli di cui sentivano la mancanza, e dell’amore che avevano per loro. La mia famiglia parlava della paura, del non sapere che fine avrebbero fatto, dei propri figli rimasti e dei figli mandati a combattere. Parlavano della propria vita, prima della guerra e durante quella guerra, nonostante una lingua e una nazione diversa, cominciarono a comprendersi.

I miei avi videro in loro padri di famiglia, videro figli, sentirono l’amarezza e la paura nella voce. Smisero di vedere soldati e videro persone.
Persone come loro.
I soldati videro nei miei familiari, uomini, donne, contadini con una vita dura, proteggevano ciò che amavano, la terra e i loro figli. Smisero di vedere nemici e videro persone.
Persone come loro.

A quel punto accaddero molte cose.
Accadde che mio nonno ogni tanto dicesse loro che aveva trovato del cibo e del vino e lo condivideva con quei soldati “tutto”.
Accadde che qualche volta la sera si ritrovavano nella stalla, bevevano il vino insieme. Credo, immagino, che abbiano riso insieme e credo che qualche volta la malinconia e l’amarezza di quella vita li abbia stretti a se.

In tutto ciò un mio zio, Gregorio, detto Gori, che di anni, ai tempi, doveva averne al massimo una ventina, di giorno lavora i campi e a volte la sera, di nascosto, si riuniva con altri giovani del paese.

Fino a che una notte, in silenzio senza farsi notare, un soldato con i fili bianchi in testa, usci di nascosto dal casolare e bussò al portone di una stalla. Quel soldato di cui io non so il nome, avvisò mio nonno, mio zio Gori scappò quella notte. Il soldato tedesco aveva avvisato mio nonno che era arrivato l’ordine dal comando centrale, il mattino dopo avrebbero portato via Gori.

Sapete cosa ha salvato la vita a mio zio?
L’empatia.
L’empatia che la mia famiglia d’origine ebbe per quei soldati “tutto”, per quel soldato con i fili bianchi in testa.
L’empatia che quel soldato ha avuto per quello che stava per accadere a mio nonno e a suo figlio.

Sapete perché ho scritto questo post?
Perché quello che sta accadendo sulla Sea Watch e sulla Sea Eye me l’ha riportata in mente, con i suoi richiedenti asilo a bordo. Ma sopratutto è scaturito da quello che leggo e sento dalla gente “normale” che vive fisicamente (e non) accanto a me, quei “normali” che si sentono molto “italiani brava gente” mentre dicono “Lasciali lì, che tornino indietro, cazzi loro”.

Sapete che come umanità siamo fortunati che non sono Dio?
Se io fossi Dio, non ci perdonerei.