Mi apri miriadi di possibilità mancate
Retrogusto di una mandorla amara
Sospiro di ciò che poteva e non è
Mare di Hikmet
Sospiro di ciò che potrebbe e non è
Retrogusto di caffè senza zucchero
Ci sei tu, tu che hai più bisogno di sicurezza che non di verità. Poi ci sono io, io che oscillo tra il bisogno di una e l’irrinunciabilità dell’altra.
In questo ondeggiare mi perdo, tra quello che voglio e quello che fa di me chi sono.
Questo fluttuare mi porta in un equilibrio instabile. In sospensione.
Così capace con l’esterno, così cieca con l’interno.
E’ lo sguardo che crea la poesia, l’anima l’assemblea e la deposita nel cuore, o forse la consegna all’amigdala.
E se l’amigdala fosse il cuore della mente, come il muscolo cardiaco lo è del corpo?
Percepisco il calore di un futuro che sta arrivando mentre la mia maledetta impazienza schiamazza.
Un singolo, piccolo scatto, e mi scaldo in questo inizio d’autunno strampalato.
La vita spesso non è propriamente semplice, però a volte un ricordo che ha la forma di un mezzodì estivo, l’odore di un piatto di pasta al pomodoro, il rumore del cicaleccio tra amici e la presenza di Progenie, fa si che tu la ami.
Ah riuscissi a vedere sempre l’intensa bellezza di questa vita, come la vedo in questa foto.

Se afferrassi un battito del mio cuore, lo tenessi per qualche istante nel tuo, per poi lasciarlo volare via
Se riuscissi a catturare il mio respiro, avvolgendoti in esso, e poi, lasciare che sia
Se ghermissi un mio sospiro, accostandolo al tuo lobo, e sentissi il silenzio che parla
Se smettessi di cercarmi dove non sono
Se smettessi di nascondermi
Se del ghiaccio cessassi di fare la mia casa
Se avesse fine il mio esser la pallina da ping pong tra “e la cosa giusta” e “sbaglio”
Mi sembra di parlare una lingua estinta. Come se parlassi latino, mentre tutti gli altri si esprimono attraverso il loro dialetto, qualcuno pure quello stretto.
Immaginatevi, per un attimo questa situazione, la problematicità di relazionarsi con gli altri. Ordinare uno spritz al rabarbaro al bar, diventa un’impresa. e dopo un pò, smetti di provarci. Ti compri il prosecco e il rabarbaro, lo spritz te lo fai da sola.
Non ne imputo la “colpa” agli altri sia ben chiaro, ma stante ciò, in ogni caso il 95% delle situazioni e delle persone mi risulta “particolare”, in questo periodo di vita.

Preferisco il silenzio, il parlar poco o quando parlo tanto, parlar di niente. In questo silenzio mi faccio un sacco di domande. Su di me riesco spesso a rispondermi. Sugli “altri” vado molto meno bene. Di alcuni mi domando il perché, di altri mi rammarico, e tutto è avvolto da una sensazione che lega il tutto. Quella sensazione che non so definire se non usando un termine portoghese: Saudade.
Si son intrisa, inzuppata, gocciolante di saudate in questo periodo. Non triste, non malinconia, è qualcosa di diverso. Wikipedia la cita come “In molti casi una dimensione quasi mistica, come accettazione del passato e fede nel futuro. Spesso tale termine viene utilizzato per esprimere la “malinconia per qualcosa che non si è vissuto” o “nostalgia del futuro“.
Io questa definizione di “nostalgia del futuro” la sento nella carne. Tutte le possibilità viste e mai nate di cui è piena la mia vita, con la consapevolezza che ciò che non è nato non è neppure morto. Quindi è ancora lì, potenzialmente pronto, ad emettere il primo vagito.
Ecco per me, l’accettazione del passato è la fede nel futuro. Guardo avanti, in piena nostalgia del mio futuro, ma come posso parlarne con chi non volge lo sguardo nella mia stessa direzione?
Questo è uno dei più dei pezzi che io abbia scritto.
Ma non ho scritto io le parole.
Questo è uno dei più bei pezzi che abbia mai potuto immaginare.
Ma non ho buttato giù neppure una virgola.
Questo è uno dei più dei pezzi che io abbia creato.
Ma non ho intinto nell’inchiostro, ma nel sangue, il mio.
Questo pezzo, si chiama Progenie, le parole sono sue, e io Mater, so che lei è il più “bel pezzo” dell’intera mia vita.
«Stamattina busta ikea con zip piena di vestiti sporchi sulla schiena e diretta in lavanderia; nel pomeriggio giacca e lezione in azienda; la sera alla Volkshochschule.
L’autunno scorso mi ha vista iniziare a lavorare in un negozio di té, vendendone a beceri berlinesi incomprensibili e a solenni straricchi del Qatar; questo mi vede insegnare in un’istituzione tedesca, con il piacere e l’onore di avere un gruppo di apprendenti che mette assieme (a mero titolo esemplificativo) un giudice, una pastora e una biker.
Quando sono arrivata non potevo permettermi un caffé; adesso il problema è che una birra infrasettimanale è minimo alle 10 di sera – il che mi integra un po’ nella Berlino “che piace”, quella che tanto attira, e che forse contrabilancerà un po’ il quartiere spudoratamente borghese in cui sto per trasferirmi.
Martedì sera camminavo per strada con zaino sulla schiena, borsa in spalla, e uno scatolone contenente altri scatoloni in previsione del prossimo trasloco. Venivo dal negozio, andavo alla scuola. Sembravo una musicista di strada – non una reale, per quanto qui di simili ne abbondino, ma un becero stereotipo che chissà come e da dove si è impresso nel mio cervello adolescente. A quei tempi, ho realizzato martedì sera, sarei voluta diventare visivamente simile a quello che ero in quel momento – i vestiti, la stanchezza e la temperanza, un po’ di cinismo-sarcasmo e comunque, sempre, l’energia di vivere una città variegata. Non so perché volessi diventare proprio quello – non lo ricordo più, come non ricordo che cosa quell’immagine implicasse.
Adesso attraverso con la metro di superficie i quartieri belli di Berlino, diretta dai miei creativi – che direttamente creativi non sono, ma lavorano in ambito creativo e attingono allo stipendio per riempirsi l’armadio di stile. Non sono letteralmente “giovani”, ma lo sono per la posizione che ricoprono e per l’approccio al lavoro e alla vita. Da uno di loro è partito il primo invito a farmi entrare al Berghain senza fare la leggendaria fila per la selezione dai criteri imperscrutabili – una discoteca che è un’istituzione, qui, tra il tempio della techno, il fondo delle droghe sintetiche e promiscuità d’ordinaria amministrazione.
Parliamo di Air Berlin e Alitalia, di vecchietti italiani che giocano a poker su una spiaggia del Baltico. Piove, un temporale di dieci minuti di cui rimangono solo i vestiti fradici delle persone che incontro quando esco. Fa freddo, ora, per la mia giacca da tre euro. Sciolgo i capelli decisamente da lavare e mi dirigo a due cambi in metro.
La quotidianità qui è così variegata da essere pressoché impossibile da riassumere in un quadretto. Cammino tra tedeschi di diverse zone della Germania, bassi e colti, turchi e francesi e spagnoli e siriani e boh, e ragazzini dall’accento britannico inconfondibile, così come la cantilena spagnola. Il mio inglese si è imbarbarito, prendendo l’accento tedesco; il mio italiano, salvo da escursioni sonore, si è imbarbarito in altri sensi, perdendo parole per strada, sostituite dall’inglese e dal tedesco; il mio tedesco continua a suonare francese.
Non ho un sunto, non una morale. Di sera leggo e cerco stralci di idee superiori in libri e saggi pescati dalla vecchia vita o trovati in quella nuova. Ne trovo, a volte, ma applicabili a cose così astratte da saperle raramente tradurre nel quotidiano. Rimangono, taciute, come molte cose che ho smesso di raccontare. Perché sono troppe. E si moltiplicano interlacciandosi. E, quando così tante cose si accumulano, suppongo, bisogna scegliere se viverle o parlarne. C’è una consapevole rinuncia, e anche questo si infila nel magma di fili colorati – che non è per niente, proprio per niente, male.»
C’è stato un periodo in cui l’ho cresciuta, ora lei cresce me.

Warning: Questo post nasce dalla diatriba nata sulla pubblicità di una merendina italiana, pubblicità che personalmente non ha suscitato nessuna reazione (né positiva, né negativa), ma la diatriba scaturita ha portato alla mente il ricordo di un ricordar un ricordo.
Bambi, il film della Disney visto da bambina, fu per me un trauma. Talmente profondo che, (venni a sapere anni dopo) appena morì la mamma di Bambi, iniziai a piangere. Lo feci per tutto il tempo del film e per le due ore successive all’uscita del cinema. Inconsolabile, l’aggettivo.
Dopodiché feci una cosa che si chiama “rimozione di un ricordo traumatico”. La mente stabilisce che non hai vissuto quella situazione, qualsiasi essa sia, perché il dolore è insormontabile e insopportabile, e tu “dimentichi”.
La “rimozione di un ricordo traumatico” non è effettiva. Il nostro cervello per proteggerci lo manda nell’antro più oscuro della nostra mente, dove noi difficilmente andiamo di nostra volontà, e lì lo deposita. Una specie di X-files de noartri. Io archiviai un X-files di “dolore empatico” in quell’antro.
Oltre trent’anni dopo, mentre guardavo una cassetta con Progenie(*), mi resi conto che intuivo esattamente ciò che sarebbe accaduto nella scena successiva. Non possedendo doti di preveggenza non riuscivo a comprendere come fosse possibile. Non capivo, non avevo mai visto quel film.
Arrivai a chiedere a mia madre se lo avevo visto da piccola. Lei mi rispose di no. Ma quella sensazione deja vu era persistente, tanto che qualche giorno dopo sentendo al telefono mia zia, quella che mi fece da mamma i primi anni di vita, lo richiesi a lei.
Così arrivò in superficie, che si l’avevo visto e che avevo pianto a dirotto per ore, mentre lei raccontava, ricordavo anch’io.
Questa cosa fu sconvolgente per me.
Tutte le certezze del mentale messe in dubbio. Chissà quante cose abbiamo rimosso e non lo sappiamo e non sapremo (a meno di non trovarci davanti a un effetto scatenante). Chissà quante cose abbiamo rimosso e al loro posto abbiamo messo ricordi per noi più accettabili, ma non veri.
Da allora un paio di dubbi mi accompagnano sempre. Il primo: se quello che penso e dico, sia quello veramente accaduto od ho una visione corretta e rivisitata. Il secondo che, che tu, persona (qualsiasi tu sia) quando mi parli, mi racconti quello che è accaduto o mi racconti la favola che ti stai raccontando.
La realtà questa magnifica sconosciuta.
Raccontiamo bugie, omettiamo verità, inconsapevolmente (alcuni, sappiatelo, consapevolmente). Modifichiamo la percezione di noi, degli altri, degli avvenimenti e delle situazioni, e quindi diamo indicazioni sbagliate a noi stessi e agli altri. Poi ci sorprendiamo che le cose non vadano quasi mai come vorremmo. Da presupposti sbagliati, nascono situazione sbagliate.
Ora (chi mi conosce) capite questo mio bisogno costante di arrivare il più possibile vicino alla verità?

(*) Fu il periodo in cui la Disney fece uscire le vhs dei suoi film, quando avendo una MiniProgenie e pensando di fare la brava mamma, le comprai tutte (o quasi) man mano che uscivano. MiniProgenie ed io le guardavamo insieme, così vedevamo le fiabe, le fiabe belle…
Progenie ti prego, perdono, se oltre ai traumi del “Ti devo parlare” con cui ho minato la tua adolescenza, ti ho esposto all’omicidio della mamma di Bambi, alla morte traumatica del padre del Re Leone, al cacciatore che espianta cuori di Biancaneve. Non ne ero consapevole.
Diciamocelo, noi itagliani, siamo un pò Guelfi e un pò Ghibellini. Un’eredità nel dna. Abbiano entrambi i recettori, in modo che se tu sei Guelfo, io divento immediatamente Ghibellino, ma se dopo cinque minuti incontro un Ghibellino mi scatta la parte Guelfa.
Non siamo capaci di integrarli, e trasmutare questi due recettori in una sinapsi evolutiva. Niente è più forte di noi. Il bastian contrario che si nutre de “sono meglio di te”, li alleva in batteria questi recettori.
Fazioni, faziosi, dall’epoca dei comuni in poi (ma anche prima), noi facciamo questo, invece di cercare i punti di unione, ci dividiamo.
Nella città dove abito ci sono i rioni, e tra questi c’è un rione “di sopra” e un rione “di sotto”. Per andare da sopra a sotto e viceversa ci impieghi dai 120 ai 180 secondi. Eppure.
Eppure la fazione dei “Guelfi” andava (una cinquantina di anni fa) dalla fazione dei “Ghibellini” perché corteggiavano le “loro” ragazze (dimenticando che le ragazze non erano di nessuno). Finivano a botte. A un certo punto hanno smesso di farlo, non perché son diventati più intelligenti e hanno capito, ma perchè avevano spostato, entrambi, l’odio su altro.
Ecco noi al momento siamo così, non diventiamo più intelligenti, spostiamo solo l’acrimonia, la paura, su altro. Lo facciamo continuamente, cambiamo oggetto e soggetto delle nostre paure, per sentirci noi i giusti, noi i bravi, per sentirci sicuri.
Noi così insicuri, fragili, così piccoli. Insultiamo, denigriamo. Non riuscendo a elevarci, cerchiamo di abbassare gli altri a noi.
Puntiamo il dito verso il Guelfo senza renderci conto che è la nostra immagine allo specchio. Insultiamo il Ghibellino ma la bocca che parla e le orecchie che ascoltano sono sempre le nostre.
Quanta energia sprecata nel nulla, per nulla.
Vacanze a casa, ma tanto vivo in un posto in cui gli altri vengono in vacanza. Siedo in uno di quei tavoli all’aperto, in piazza, vicino al lago.
Io e Juni a far colazione.
Le vedo, anzi prima le sento. Tre ragazzine. Quell’età indefinita che va tra 15 e i 18. Due ragazzine capelli lunghi, sciolti sulle spalle. Una con il velo attorno al capo. Ridono e parlano di tutto. Una ragazzina, maglietta bianca, le maniche lunghe a coprire la pelle, le altre due sbracciate a mostrare l’abbronzatura. Fanno colazione insieme e parlano di vita e di speranze, le loro.
Le loro parole me le fanno sbirciare di sottocchio. Bellezza double face, belle dentro e fuori. Ah se l’umanità fosse racchiusa in questa immagine. Rispettose una dell’altra. Accettante una dell’altra. Tu fai come vuoi che io faccio come voglio portando rispetto per quello che sei. Se voglio cambio e prendo il meglio di quello che sei, se vuoi cambi e prendi il meglio di quello che sono. Se non vogliamo rimaniamo quello che siamo e sorseggiamo il mondo attraverso i nostri desideri.
Viviamo in tempi che la storia dirà di grande cambiamento, ed io spero che il cambiamento sia fatto da ragazzine che ridono e si raccontano la vita.

PS: no, non sono un “buonista”, di buono ho solo lo sconto della tessera fidaty.
PPS: però gli “haters” mi stanno poco simpatici.
PPPS: anche dover specificare i ps sopra, mi piace poco, ma son donna di rete (anche) e prevenire è meglio che curare.