IL FAVOLOSO MONDO DI DIAMI’


“Il mondo esterno appare così morto che Amélie preferisce sognare una sua vita in attesa di avere l’età per andarsene”

(Il favoloso mondo di Amèlie)

E mi riporto a me piccola, in cucina, seduta tra la macchina per cucire e la lavatrice. La schiena appoggiata su questa ultima. Ferma, immobile, silenziosa ma con gli occhi aperti. Avevo mille mondi in testa. Viaggiavo con le mente, vivevo avventure e vite. Fuggivo da una realtà che mi stava stretta e da cui non potevo andarmene.

E poi, poco più che adolescente, in un mondo che ho attraversato in punta di piedi, cercando di non farmi notare, perché tanto sicura non ero, era tutto più grande di me. Io viaggiavo nei miei mondi. Non rimanevo più immobile tra la lavatrice e la macchina per cucire, ma andavo via lo stesso. Spesso dovevano chiamarmi più volte chiedendomi: “Su quale pianeta sei?”

Eccomi ora donna in crescita, non viaggiavo più su altri mondi, camminavo su questo. Arrancavo, sbuffavo e sudavo per star al passo con gli altri, passo che a loro sembrava così facile condurre.

 

“- Tutte le donne vogliono addormentarsi sulla spalla di un uomo.
– Sì, ma gli uomini russano ed io… ho l’orecchio musicale.”

(Il favoloso mondo di Amèlie)

 

Era una situazione fisica che conoscevo. Quando la vidi nel film, mi sembrava impossibile che qualcuno fosse riuscito a descrivere perfettamente la sensazione che avevo provato io. Ogni volta che vedevo quella scena, mi ricordavo il mio sciogliermi e mi scioglievo ancora.
Forse non camminavo ancora del tutto su questo mondo, per quello arrancavo così tanto, stavo con un piede di qua e un piede di là, ma il di qua non lo capivo.

Poi è accaduto. Ho smesso di viaggiare nei mondi. Il di qua ancora non lo capisco, ma ne son rimasta imprigionata. Spinta e strattonata da eventi che ho creato, da storie che non ho saputo gestire e da personaggi che di sogni e mondi altrui si nutrono.

Cammino con la sensazione di un’occidentale che deve capire dove dirigersi in una metropoli asiatica.

L’errore più grande è stato credere che questo fosse il vero mondo, dimenticando che il vero mondo è quello che noi, riusciamo a creare. Questo è solo la brutta copia del mondo di qualcun altro.

Prima o poi la porta per uno dei miei mondi la ritrovo.

 

Nel frattempo in sottofondo scorre questa musica.

LA PERCEZIONE SOTTILE


Avrei potuto prevedere anche il mio futuro, ma è stato un bene non averlo fatto, non lo avrei mai affrontato.

Lo son sempre stata fin da piccola, attenta agli altri, ai loro bisogni e alle loro esigenze. Era il mio modo di dire “ti voglio bene”. Mi riusciva bene perché ero una bambina che il mondo lo osserva e lo ascoltava. E’ stato così che ho iniziato a sviluppare “l’empatia”, anche se a onor del vero, ad un certo punto sviluppare i sensi della percezione sottile è stata più una questione di sopravvivenza. Ma questo è un altro discorso. Stavo dicendo che il mio dimostrare amore erano la mia attenzione e il mio tempo su te, e mi aspettavo qualcosa di simile. Errato. Avrei dovuto capirlo da subito. E invece cominciai a pensare di non meritare di essere amata.

Il problema e che cominciai a pensarlo in maniera inconscia, mentre in maniera conscia cercavo di sopperire. Dovevo essere più brava, dovevo essere più obbediente, dovevo dare di più, dovevo amare di più, dovevo guadagnarmi l’amore. Ma l’amore non si guadagna e non si vende. L’amore è un regalo che accetti o doni.

Più crescevo più il problema affondava dentro di me, meno era visibile, più dovevo meritare di essere amata. Più cadevo in questa dinamica più le persone di guano mi cercavano. Come un predatore annusa il sangue nell’aria della sua preda, ci son merde che sentono questa vibrazione. Io li chiamo i vampiri energetici. Più hai energia e più sei disposta a condividerla più si attaccano come sanguisughe, ma anche questo è un altro discorso.

Il discorso di oggi è un non discorso. E un post non post e non è “tristo”. Mi son solo scoperta ad osservarmi nella foto qui sopra. Vedermi e ricordare perfettamente i pensieri di allora e scrivere a getto. Otto anni e quello sguardo, otto anni e già seria, otto anni e gli altri bambini giocavano ed io affrontavo cose più grandi di me. Lì ho sviluppato la percezione sottile del futuro. Avrei potuto prevedere anche il mio futuro, ma è stato un bene non averlo fatto, non lo avrei mai affrontato.

L’ALLUCE DELL’ANGELO


Ci credevo, ci credevo veramente. Loro vivevano là dentro.
Questo mio credere ha fatto si che i lunghi viaggi in auto non fossero mai così lunghi perchè ero impegnata a cercare prove e verifiche. Ci ho passato ore ad osservale, bambina, sul sedile posteriore con il naso schiacciato sul finestrino e gli occhi all’insù.
Prima o poi, ne ero sicura, qualche angelo avrebbe fatto un passo falso e un piede con tutta la caviglia angiolesca sarebbe sbucato fuori e finalmente io avrei avuto la prova che gli angeli esistono.
Non ho mai visto un piede angiolesco sbucare fuori, neppure un alluce volendo ben vedere, ma sapevo che loro vivevano là dentro in quelle nuvole soffici, bambagiose, paffute.
Quel tipo di nuvola era la casa degli angeli io lo sapevo, loro vivevano là dentro.

cloud

Poi ho smesso di credere.
Ho smesso di credere agli angeli, ho smesso di credere che il bene vince sempre sul male, che i buoni sorridono e i cattivi piangono, ho smesso di credere che se sei onesto gli altri lo saranno con te, ho smesso di credere a un sacco di cose.
Ed io invece vorrei credere, mi manca quella bambina con il naso schiacciato sul finestrino posteriore che cerca le prove dell’esistenza degli angeli.
Mi manca, mi manco, perchè quando credevo l’impossibile ho fatto l’impossibile.

Chissà forse dovrei guardare ancora in alto, strizzare gli occhi e osservare a lungo, dovrei credere di credere che chissà prima o poi un alluce d’angelo sbucherà dalla nuvola.