Esiste una bellezza nel mondo che a volte abbiamo la capacità di vedere solo attraverso certi stati d’animo.
Credo che sia per questo che ho imparato, mentre entro in una nuova prospettiva, ad amare e ringraziare anche chi mi ha ferito.

I miei pensieri volano come rondini ai primi freddi. Cercano posti caldi dove adagiarsi e riprodursi.
Tengo stretto a me il cuore. Non per avarizia, non per paura, ma nella ricerca di chi lo tiene allo stesso modo, in attesa di donarlo a me.

Emozioni come gatti acciambellati accanto al fuoco del camino. Aspettano di sciogliersi con il calore.
Sospiro a riempire l’aria di me.
Mi ascolto il petto nel mio librarmi, cadere, per poi riprovare ancora il volo.
Chiudo leggeri gli occhi a vedere, dietro le palpebre, le immagini dei miei sogni fatti colore.
Le mille me si siedono ai bordi del fiume, muovono le dita dei piedi nell’acqua, a percepire il suo parlare tra vibrazioni e carezze. Divento fluida insieme a lui.
Io sono anche questo.
Non voglio più presenza nell’assenza.
Quello storcere il ventricolo sinistro in una smorfia di dolore, che caccio via subito, mi contrae per un attimo.
Parlano di me come una forte come se le persone forti non sentissero dolore. Come se le lame entrassero nella loro carne, nella mia, senza far uscire il sangue.
Pensano io abbia un apparato muscolare atto a sorreggere i pensieri della notte, senza sentirne il peso, mentre la gravità di questo mondo mi inchioda a terra.

Parlano di me a me, come se le lacrime non mi appartenessero, come se l’universo mi avesse creato senza condotti lacrimali.
Eppure è lì, così evidente più fragile sei, più forte devi diventare per sopravvivere.
Io le mie improbabile definizioni di amore, voi e le scuse nascoste dietro quel “Ma tu sei più forte”. Come se uno nascesse così e non fosse una scelta.
Quante cose mi impedisco di fare, quante cose mi impedisco di far vedere, quanti divieti ho messo per essere forte, sapendo che la vera forza sta lì, in quella apertura senza paura, che ancora non riesco ad avere.
Se una foto è molto bella, diciamo “Sembra un dipinto”.
Se un dipinto è molto bello diciamo, “Sembra una foto”
Di base pensiamo che il meglio sia sempre qualcos’altro, da qualche altra parte, in un altro momento.
Quindi viviamo in sospensione. Tra un “si stava meglio quando si stava peggio” e un “domani sarà meglio”.
Ma la vita è qui, ora in questo esatto momento. Ora sento il sapore. Ora sento l’aria riempire i polmoni. Ora, se mi baci, caccio la mia lingua nella tua bocca. Ora sento il tuo profumo. Ora puoi farmi venire la pelle che un’oca m’invidierebbe.
Ieri si confonde e confonde come le nebbie delle coste lacustri, domani è una voluta di fumo che cerchi di ghermire con un retino.
Conta solo ora.
Carpe diem dicevano, ma non serve cogliere un attimo fuggevole, basta vivere al massimo delle nostre possibilità, ora.
A come amore, prima lettera, come prima cosa della mia vita è l’amore.
B come brividi, d’amore, di piacere, di colore, di paura, i brividi del mio vivere.
C come calore. Come fare senza il calore di un raggio di sole a primavera? Come vivere senza il calore di un abbraccio che ti avvolge?
D come Dio, univoco, semplice, che vive dentro noi. Quindi fa di noi un dio, caduto in disgrazia su questa terra.
E come errori, tanti, quelli che ho fatto, e che farò.
F come felicità, tanto cercata a tratti trovata e ora guardata spesso da lontano, perché sia mai che ti si rivolta contro.
G come godere, questo dovrei fare in questa vita, se solo spesso non mi remassi contro da sola.
H come hotel quelli in avrei voluto dormire visitando il mondo, e che non ho visto.
I come incomprensioni, quelle che spesso il mondo ha con me, o che io ho con lui.
L come lino, che mi ricorda l’estate, i vestiti e l’insegnamento della vera bellezza: per esser elegante devi esser stropicciato e vissuto
M come mente, come organo e come affermazioni di persone che l’hanno fatto nel mio vivere.
N come noi, e noi mi piaceva tanto, non ricordo quando ho smesso di dire noi e pensare io.
O come oro, ma non il metallo, ma quello che vedo in fondo agli occhi di alcune persone. Il più prezioso.
P come perdermi, è stato l’unico modo per ritrovarmi.
Q come quadri, quelli che vorrei appendere e che non appendo alle pareti della mia casa.
R come rabbia, la mia, potente quando scatta, come la lama di un coltello serramanico.
S come silenzio, che amo, perché nel silenzio mi sento e mi comprendo (quasi sempre).
T come tempo, il mio che fugge tra le dita.
U come Ufff che a volte dico, a volte penso, a volte ascolto e a volte sento nella carne.
V come vivo, non so come, non so se davvero, ma so che ci provo.
Z come Zorro, quello della Disney in bianco e nero, L’eroe, il mio primo, quello amato.
Io e il mio consumar i tasti di questa vita.
Digerire il vino rosso alle sei del mattino, è chiaro sintomo di una serata passata con gli amici.
Cinque teste, tre bottiglie. E la promessa non mantenuta, come sempre, di “un bicchiere e via, senza far tardi”.

Un sorso di vino e un pensiero, mentre ti dicono che sei troppo esigente. Un pensiero e un sorso di vino, mentre ti dicono “eh sì… e allora ciao”.
Un sorso di vino e trilla il cellulare con i messaggi di chi parla d’amore, ma non per te, ma per se.
Un sorso di vino e te lo domandi come è questa cosa, chiedono sempre a te consigli d’amore. A te, che viaggi sola da una vita, a te che di uomini ne hai avuti pochi e pure sbagliati, a te quindi che sei poco attendibile a dar consigli giusti.
Un sorso di vino e gli amici un po’ te lo consigliano “e dalla un po’ via”. Tu la daresti anche, ma mica tutti van bene, e riparte il “sei troppo esigente”.
Un sorso di vino e te lo dici, perché mai dovrei pretendere da un uomo meno di quello che pretendo da un amico?
Due sorsi di vino e vedi le domande che ti fai, galleggiare sulla superficie del bicchiere.
Lo sai, domani il vino non ci sarà più, ma le domande saranno lì, tutte.

Grazie RM di aver abbinato il tuo “Oltre” al mio.
Ho imparato che:
Ci sono un sacco di mondi, tutti veri e tutti falsi, nello stesso momento.
Ci son persone che vivono con un preservativo sull’intero corpo, come vestito.
A volte ci si sente più soli quando si è in compagnia di quando si è soli.
Sorrido più forte quando una cosa mi ferisce, a nascondere, ma questo lo sapevo già.
Se ti chiedo una carezza sulla pelle e accarezzi la stoffa, sei Polifemo dopo il passaggio di Ulisse.
Le persone a volte ti feriscono non perché vogliono farlo, ma perché son ferite a loro volta. Ma il dolore inferto, cola come il loro e non fa meno male per questo.
Se non riconosci l’intensità del mio vivere, non mi puoi vedere.
Se non ascolti il respiro della mia anima, non mi puoi sentire.
Migliore e peggiore son due mondi, e come tali veri e falsi, nello stesso momento.
Di me ho imparato che:
Se mi allontani quando mi vuoi vicino, io me ne vado lo stesso.
Comprendo, non tutto è vero, capisco, giustifico, amo, sento il vuoto che lasci, ma me ne vado.
Se ti vesti di preservativo io volo via.
La mia anima vive attraverso “mi fai male” “mi fai bene”, ma questo lo sapevo già.
Ho scoperto di amare il mio corpo molto più di quanto pensassi. Quelli che credevo sfregi del tempo sulla carne, son le pennellate che ci rendono unici.
Mi piace fare l’amore, ma far l’amore è mettere tre parti di te in gioco, e quindi son sei, quando si è in due. Combaciarle è difficile.
Far del sesso lo lascio a voi, a voi che vi accontentate, voi che mettete in gioco solo una delle tre parti.
Anche io difficilmente metto in gioco tutte e tre le parti, ne metto in gioco solo due, ed è uno sbaglio.
Mi mancano da morire le coccole.
Apprendo sempre il meglio da ogni cosa.
So amare anche in maniera incondizionata, come il tempo del cuore, in maniera intermittente. Però, alla fine, l’egoismo umano, riprende sempre possesso di me.
Se afferrassi un battito del mio cuore, lo tenessi per qualche istante nel tuo, per poi lasciarlo volare via
Se riuscissi a catturare il mio respiro, avvolgendoti in esso, e poi, lasciare che sia
Se ghermissi un mio sospiro, accostandolo al tuo lobo, e sentissi il silenzio che parla
Se smettessi di cercarmi dove non sono
Se smettessi di nascondermi
Se del ghiaccio cessassi di fare la mia casa
Se avesse fine il mio esser la pallina da ping pong tra “e la cosa giusta” e “sbaglio”
Questo è uno dei più dei pezzi che io abbia scritto.
Ma non ho scritto io le parole.
Questo è uno dei più bei pezzi che abbia mai potuto immaginare.
Ma non ho buttato giù neppure una virgola.
Questo è uno dei più dei pezzi che io abbia creato.
Ma non ho intinto nell’inchiostro, ma nel sangue, il mio.
Questo pezzo, si chiama Progenie, le parole sono sue, e io Mater, so che lei è il più “bel pezzo” dell’intera mia vita.
«Stamattina busta ikea con zip piena di vestiti sporchi sulla schiena e diretta in lavanderia; nel pomeriggio giacca e lezione in azienda; la sera alla Volkshochschule.
L’autunno scorso mi ha vista iniziare a lavorare in un negozio di té, vendendone a beceri berlinesi incomprensibili e a solenni straricchi del Qatar; questo mi vede insegnare in un’istituzione tedesca, con il piacere e l’onore di avere un gruppo di apprendenti che mette assieme (a mero titolo esemplificativo) un giudice, una pastora e una biker.
Quando sono arrivata non potevo permettermi un caffé; adesso il problema è che una birra infrasettimanale è minimo alle 10 di sera – il che mi integra un po’ nella Berlino “che piace”, quella che tanto attira, e che forse contrabilancerà un po’ il quartiere spudoratamente borghese in cui sto per trasferirmi.
Martedì sera camminavo per strada con zaino sulla schiena, borsa in spalla, e uno scatolone contenente altri scatoloni in previsione del prossimo trasloco. Venivo dal negozio, andavo alla scuola. Sembravo una musicista di strada – non una reale, per quanto qui di simili ne abbondino, ma un becero stereotipo che chissà come e da dove si è impresso nel mio cervello adolescente. A quei tempi, ho realizzato martedì sera, sarei voluta diventare visivamente simile a quello che ero in quel momento – i vestiti, la stanchezza e la temperanza, un po’ di cinismo-sarcasmo e comunque, sempre, l’energia di vivere una città variegata. Non so perché volessi diventare proprio quello – non lo ricordo più, come non ricordo che cosa quell’immagine implicasse.
Adesso attraverso con la metro di superficie i quartieri belli di Berlino, diretta dai miei creativi – che direttamente creativi non sono, ma lavorano in ambito creativo e attingono allo stipendio per riempirsi l’armadio di stile. Non sono letteralmente “giovani”, ma lo sono per la posizione che ricoprono e per l’approccio al lavoro e alla vita. Da uno di loro è partito il primo invito a farmi entrare al Berghain senza fare la leggendaria fila per la selezione dai criteri imperscrutabili – una discoteca che è un’istituzione, qui, tra il tempio della techno, il fondo delle droghe sintetiche e promiscuità d’ordinaria amministrazione.
Parliamo di Air Berlin e Alitalia, di vecchietti italiani che giocano a poker su una spiaggia del Baltico. Piove, un temporale di dieci minuti di cui rimangono solo i vestiti fradici delle persone che incontro quando esco. Fa freddo, ora, per la mia giacca da tre euro. Sciolgo i capelli decisamente da lavare e mi dirigo a due cambi in metro.
La quotidianità qui è così variegata da essere pressoché impossibile da riassumere in un quadretto. Cammino tra tedeschi di diverse zone della Germania, bassi e colti, turchi e francesi e spagnoli e siriani e boh, e ragazzini dall’accento britannico inconfondibile, così come la cantilena spagnola. Il mio inglese si è imbarbarito, prendendo l’accento tedesco; il mio italiano, salvo da escursioni sonore, si è imbarbarito in altri sensi, perdendo parole per strada, sostituite dall’inglese e dal tedesco; il mio tedesco continua a suonare francese.
Non ho un sunto, non una morale. Di sera leggo e cerco stralci di idee superiori in libri e saggi pescati dalla vecchia vita o trovati in quella nuova. Ne trovo, a volte, ma applicabili a cose così astratte da saperle raramente tradurre nel quotidiano. Rimangono, taciute, come molte cose che ho smesso di raccontare. Perché sono troppe. E si moltiplicano interlacciandosi. E, quando così tante cose si accumulano, suppongo, bisogna scegliere se viverle o parlarne. C’è una consapevole rinuncia, e anche questo si infila nel magma di fili colorati – che non è per niente, proprio per niente, male.»
C’è stato un periodo in cui l’ho cresciuta, ora lei cresce me.
