JUĜO


Il sole mi abbraccia, accarezza le mie mani, avvolge gli avambracci poggiati sulla scrivania. Amo questo tepore, mi fa stare bene. Appoggio le dita sulla tastiera e inizio a scrivere, solo due righe a fissare.

Sono in un periodo strano della mia vita. Comprendo e amo maggiormente le persone e nel contempo sono diventata più intollerante verso il mondo. Del resto la mia vita è stata sempre un ossimoro costante.

Ho iniziato a recidere in profondità rami secchi. Tolgo attenzione a persone e numeri di telefono dal cellulare. Vorrei togliermi anche il giudizio strisciante che ogni tanto mi ritrovo davanti (il mio sia ben chiaro, che quello altrui ora lo recido insieme alla persona), sorpresa di non essere stata capace di rinunciare alla mia umana imperfezione, stupita di non essere perfetta e di non avere opinioni senza giudizio. Ma il saperlo, il rendermene conto, fa si che quel giudizio strisciante appena portato alla luce, tenda a dileguarsi lasciando aperta la porta al “giudizio sospeso”. Con una sola esclusione, quando io giudico me, qui di sospeso poco, grazie al mio giudice interiore.

Quante parole insieme riesco a generare. Mi blocco con lo sguardo a mezz’aria a vederle passare ancora sotto forma di pensiero. Son sempre stata un’incubatrice di pensieri, partorisco me stessa tra una M e una B, eppure vivo bene solo quando le parole le vivo, molto meno quando le penso.

Dovrei esser più propositiva, lo so, ma il sole ha abbandonato la mia scrivania, comincio a sentire freddo.