L’ALFABETO DELLA MIA VITA


A come amore, prima lettera, come prima cosa della mia vita è l’amore.

B come brividi, d’amore, di piacere, di colore, di paura, i brividi del mio vivere.

C come calore. Come fare senza il calore di un raggio di sole a primavera? Come vivere senza il calore di un abbraccio che ti avvolge?

D come Dio, univoco, semplice, che vive dentro noi. Quindi fa di noi un dio, caduto in disgrazia su questa terra.

E come errori, tanti, quelli che ho fatto, e che farò.

F come felicità, tanto cercata a tratti trovata e ora guardata spesso da lontano, perché sia mai che ti si rivolta contro.

G come godere, questo dovrei fare in questa vita, se solo spesso non mi remassi contro da sola.

H come hotel quelli in avrei voluto dormire visitando il mondo, e che non ho visto.

I come incomprensioni, quelle che spesso il mondo ha con me, o che io ho con lui.

L come lino, che mi ricorda l’estate, i vestiti e l’insegnamento della vera bellezza: per esser elegante devi esser stropicciato e vissuto

M come mente, come organo e come affermazioni di persone che l’hanno fatto nel mio vivere.

N come noi, e noi mi piaceva tanto, non ricordo quando ho smesso di dire noi e pensare io.

O come oro, ma non il metallo, ma quello che vedo in fondo agli occhi di alcune persone. Il più prezioso.

P come perdermi, è stato l’unico modo per ritrovarmi.

Q come quadri, quelli che vorrei appendere e che non appendo alle pareti della mia casa.

R come rabbia, la mia, potente quando scatta, come la lama di un coltello serramanico.

S come silenzio, che amo, perché nel silenzio mi sento e mi comprendo (quasi sempre).

T come tempo, il mio che fugge tra le dita.

U come Ufff che a volte dico, a volte penso, a volte ascolto e a volte sento nella carne.

V come vivo, non so come, non so se davvero, ma so che ci provo.

Z come Zorro, quello della Disney in bianco e nero, L’eroe, il mio primo, quello amato.

Io e il mio consumar i tasti di questa vita.

ALONE


Con il primo freddo vero e quelle nuvole che avvolgono come un cellophane grigio scuro, son arrivate anche loro. La cervicale e questa sensazione di cupa tristezza. Come se corpo e anima stessero vibrando sulla stessa tonalità monocorde.

Ho voglia di viaggi che non posso fare, desidero libertà di cui dovrei pagare pegno, anelo cuori con cui denudare i miei pensieri, bramo al nuovo come un apneista in emersione, il primo respiro fuori l’acqua .

Sbuffo, butto lo sguardo fuori la finestra. Rammento il sospetto di ieri sera, mentre guidavo nel buio. Le luci rosse e gialle della città a illuminare l’oscurità esterna che sembrava voler prendere possesso anche di me.

La sensazione di attraversare questo mondo da sola.

The winter in coming, e io necessito di più colore e calore nella mia vita.

SIGARETTE


Ci son giornate che mi domando perché ho smesso di fumare.

Te lo ricordi il momento, quando aspiravi lentamente davanti l’accendino. L’istante stesso in cui il veleno ti riempiva i polmoni e la tua dipendenza si acchetava. Quando svuotavi i polmoni dell’aria e con essa il fumo, liberazione di un male che avevi cercato tu.

Forse è questo che mi manca, la sensazione di liberarsi di qualcosa che fa male.

Le dipendenze sono abili manipolatrici, ami ciò che ti ucciderà, sia essa una sigaretta, una situazione, una persona.

Mentre pensi questo, te lo ricordi perché hai smesso. Tu, quando ne diventi consapevole, dipendente di niente e nessuno. Se poi vogliamo parlare di quante cose e persone siamo “schiavi” inconsapevolmente (o inconsciamente consapevoli) è un altro discorso.

Il sogno di stanotte non mi ha aiutato a essere allegra. Il sottile mal di testa che accarezza la mia parte sinistra spegne ogni velleità di pensiero.

Guardo fuori della finestra. Grigio, pioggia come compagni e questa voglia di sottofondo, quella di liberarsi di qualcosa che bene non fa.

DI SILVER, DI AVVOCATI, DI TOYS BOY E DOMANDE (FATTE E NON)


Arrivo da un sabato e domenica il cui aggettivo non riesco a trovare, tanto è stato bello. Un seminario con Bruce Lipton e Gregg Braden, un luogo dove la scienza arriva al confine e mette un piede nel “campo”. Il campo è quel luogo ove esiste tutto e l’anima è a casa. Quest’ultimo fine settimana, quindi, ho incontrato scienziati che l’anima la abbracciano. E’ stato come tornare a casa, dopo anni che sei lontano, emigrato, tornare e sentire il calore della famiglia.

Sono passata da un lunedì fatto ancora da: “Dai un bicchiere e via” ma stavolta siamo stati bravi, non si son trasformati in tre bocce, ma solo in due calici. A parlare ancora di uomini (ma anche di donne), di Tinder, di Meeting e di altre app dating. Il suggerimento di darmi ai “toy boy” e il “toy boy” che si è offerto per gioco.

Il martedì dopo il lavoro ho guardato un film, “In Your Eyes” inglese con i sottotitoli in italiano. L’ho guardato insieme a Willy. In mezzo a noi solo 400 km di distanza. In mezzo a noi solo qualche cosa che non dico e una domanda che non faccio.

Qualche cosa che non dico perché insieme alle parole, penso a un detto Sufi che le ferma:
al primo cancello, chiedi a te stesso: “è vero?”
(ed io non lo so, so che è quello che vedo e sento io)
al secondo cancello domandati: “è necessario?”
(ed io non lo so, so che l’aria è necessaria, non le parole)
al terzo cancello: “è gentile?”
(ed io non lo so, e quando non lo sai, al 50% non lo è)

Una domanda che non faccio, poiché per risposta, già lo percepisco, non mi sarà data quella vera.

Mercoledì festa. La mattina quaranta minuti di macchina per chiacchierare due ore e rifarsi quaranta minuti di macchina per tornare a casa. Ma l’amicizia con qualcuno con cui condivi passaggi di strada e visione di mondi li vale. L’organizzarsi con lei per il venerdì, il teatro, Jodoroski e un altro pezzo verso chi siamo.

Il primo pomeriggio sentirsi dire “Io per te spianerei le montagne, se tu solo volessi”. Sai che sta dicendo la verità, ma per l’ennesima volta dirgli “No”.
Ti dispiace, vorresti amare un uomo così, uno che per te le montagne le spiana. E invece sempre uomini che manco le colline spianano, ma che dico colline, manco la pianura attraversano.
Progenie direbbe che è tutto una situation comedy in cui il regista, il “Diocheride“, mi ha messo come protagonista.

E la sera infine, a cena a casa di amici. Per te cucinano vegetariano anche se tu dici mi basta un’insalata o la pasta con l’olio. E invece no, ti accolgono con cibo adatto a te e il campari con l’aranciata amara. E così quattro calici e le parole che si tuffano anche nel vino bianco.
L’Avvocato è accanto a te, lo guardi, gli vuoi bene, tanto, anche ora che ne scrivi, un pò il cuore ti si apre di affetto per lui, anche se a volte lo prenderesti a schiaffi. Ma tu prendi a schiaffi solo quelli che ami (“Che culo” direbbe l’Avvocato). Con gli altri, con quelli che ti son indifferenti, o quelli che stai lasciando andare, il tempo non lo sprechi neppure per le sberle. Vai oltre e basta.
Torni a casa con le risate e un sottotofondo musicale, ti hanno rovinato l’effetto romantico che questa canzone aveva, ma ne ha assunto uno ancora più bello, ti farà ridere ogni volta che lo sentirai.

Oggi, mentre scrivo, mi si apre il cuore di gratitudine. Anche con i nei e le cose irrisolte. Anche con le domande che non faccio e le cose che non dico. Anche con il “Diocheride” che mi ha preso come protagonista femminile principale delle sue produzioni. Anche con tutto questo io sono grata.
Gratitudine per le persone che ho accanto a me, della vita che conduco, dell’amore che ricevo, dell’amore che sono ancora in grado di dare, perché di questo si illumina il mio vivere.

Grata del mio sapermi ancora son capace di arrovellarmi su cose futili e sciocche da “femmina”, come il pensiero che da un paio di giorni mi passa per la mente, cambiar il color dei capelli, e diventare silver (nonostante l’età).

Io ci provo ancora, nelle mie possibilità, a vivere il meglio della mia vita.


PS: prima che vi illudiate io non son la modella strapheega della foto

LEGGO DI ME


Ripiego le mie parole una a una. Allineo le emozioni scombinate. Distendo i pensieri attorcigliati. Lentamente sciolgo ogni nodo e compongo delle piccole matassine colorate e le metto accanto alle parole ripiegate.

Non dimentico niente, ma non conservo con me il peso del ricordo. Lo ripiego, in piccole scatoline, insieme alle parole in fondo un cassetto, non quello dei sogni, in un’altro.

Non dimentico niente, perché dimenticare non sempre è un bene. Altrimenti non impareremmo mai nulla dalle cose che ci accadono. Ogni volta con la fiamma ci bruceremmo, non ricorderemmo di buttare la buccia e mangiare solo il frutto. Le cose che mi accadono quindi le ripiego e le conservo nei cassetti della memoria. Belle o brutte che siano.

Poi arriva un momento nel quale avverto il sentore della cosa già accaduta. Vado allora a riaprire i cassetti, scartabello e cerco, finché non trovo. Trovo tutte le volte che è accaduta. Allora sommo. Uno più uno più uno più uno. Quella cosa è già accaduta altre volte.
Così scopro le dinamiche, positive o negative, mi accorgo in quel modo delle ripetizioni costanti della mia vita.

Se la ripetizione è bella, sorrido e ringrazio questo mondo per il dono. Ripiego i pensieri e le parole, li rimetto nel cassetto, e conservo con me l’emozione nel cuore.

Accade più sovente il contrario, la dinamica tossica, che avvelena, che ti mangia e consuma. A quel punto ne prendo atto.

Uno più uno più uno più uno più uno = troppo.

Prendo tutte le parole, i pensieri, le emozioni che la riguardano. Dispiego tutto davanti a me. Osservo lentamente. Leggo di me.
Possono passare ore o anche giorni. Mi faccio una visione d’insieme della dinamica, tiro fuori l’insegnamento, poi accartoccio. Accartoccio tutto insieme. Accartoccio come si fa con un foglio di alluminio. Accartoccio in una piccola palla e butto via.
Accartoccio pensieri, ricordi, frasi, emozioni e persone. Faccio spazio perché in quel vuoto ci possa entrare il nuovo.

SORSI


Digerire il vino rosso alle sei del mattino, è chiaro sintomo di una serata passata con gli amici.
Cinque teste, tre bottiglie. E la promessa non mantenuta, come sempre, di “un bicchiere e via, senza far tardi”.

Un sorso di vino e un pensiero, mentre ti dicono che sei troppo esigente. Un pensiero e un sorso di vino, mentre ti dicono “eh sì… e allora ciao”.

Un sorso di vino e trilla il cellulare con i messaggi di chi parla d’amore, ma non per te, ma per se.

Un sorso di vino e te lo domandi come è questa cosa,  chiedono sempre a te consigli d’amore. A te, che viaggi sola da una vita, a te che di uomini ne hai avuti pochi e pure sbagliati, a te quindi che sei poco attendibile a dar consigli giusti.

Un sorso di vino e gli amici un po’ te lo consigliano “e dalla un po’ via”. Tu la daresti anche, ma mica tutti van bene, e riparte il “sei troppo esigente”.

Un sorso di vino e te lo dici, perché mai dovrei pretendere da un uomo meno di quello che pretendo da un amico?

Due sorsi di vino e vedi le domande che ti fai, galleggiare sulla superficie del bicchiere.
Lo sai, domani il vino non ci sarà più, ma le domande saranno lì, tutte.

Dimensione Oltre by R.M.

Grazie RM di aver abbinato il tuo “Oltre” al mio.

OLTRE


Io non ci vivo nel grigio, ci sopravvivo, a volte mi ci ammalo. Se mi fermo lì a lungo, ci muoio, ma non ci vivo. Io vivo in altri colori.

Il problema è che io il grigio non lo vedo. Con gli anni ho imparato che esiste, ho appreso a intuirlo a tentoni, a riconoscere l’odore di muffa che emana, ma non lo vedo. Per questo ogni tanto mi ci ritrovo dentro senza rendermene conto. Perché ero distratta. Perché mi hai indicato un punto lontano, luminoso e colorato, e guardando quello non mi son accorta che stavo cadendo nel grigio.

Se Dante vivesse oggi e riscrivesse la divina commedia abbinata ai colori, nel grigio ci metterebbe gli ignavi. Quelli che non decidono, quelli che vivono a cavallo di, quelli che confondono la parola definizione, quelli che non vogliono prendere una posizione nella vita, neppure nella loro.

Prendere una posizione non vuol dire essere escludere gli altri o esser aggressivi con il mondo.

Prendere una posizione è portare avanti ciò che si è, ciò che si pensa che siamo. Vuol dire delimitare un’idea, portare l’astratto nel mondo e comprenderlo.

Prendere una posizione non vuol dire essere rigidi e statici, ma essere capaci di avere radici, consapevoli che possiamo cambiare terreno in cui piantarle.

Prendere una posizione è segnare con le punta delle dita i contorni di un’emozione, e questo non vuol dire voler inscatolare ogni cosa, ma darle forma e corpo, dare carne a un’emozione, partorire se stessi.

Nel grigio ciò è impossibile, tutto si confonde, banchettano i predatori, è lì che nascono le paure, è lì che vivono i mezzi. I mezzi uomini, i mezzi pensieri, le mezze verità, le mezze bugie, le mezze donne, i mezzi discorsi. Ma a me l’unica cosa mezza che mi piace è il “mezzo e mezzo” di Nardini (che a vederla bene poi, un mezzo più un mezzo, fa un’intero).

Tutto questo ho pensato stamattina, quando ho alzato gli occhi al cielo mentre il mio corpo comunicava con me.
La mia direzione. Oltre.

SE


Se afferrassi un battito del mio cuore, lo tenessi per qualche istante nel tuo, per poi lasciarlo volare via

Se riuscissi a catturare il mio respiro, avvolgendoti in esso, e poi, lasciare che sia

Se ghermissi un mio sospiro, accostandolo al tuo lobo, e sentissi il silenzio che parla

Se smettessi di cercarmi dove non sono

Se smettessi di nascondermi

Se del ghiaccio cessassi di fare la mia casa

Se avesse fine il mio esser la pallina da ping pong tra “e la cosa giusta” e “sbaglio”

Se cambiasse la vocale, e il se diventasse si

SAUDATE


Mi sembra di parlare una lingua estinta. Come se parlassi latino, mentre tutti gli altri si esprimono attraverso il loro dialetto, qualcuno pure quello stretto.

Immaginatevi, per un attimo questa situazione, la problematicità di relazionarsi con gli altri. Ordinare uno spritz al rabarbaro al bar, diventa un’impresa. e dopo un pò, smetti di provarci. Ti compri il prosecco e il rabarbaro, lo spritz te lo fai da sola.

Non ne imputo la “colpa” agli altri sia ben chiaro, ma stante ciò, in ogni caso il 95% delle situazioni e delle persone mi risulta “particolare”, in questo periodo di vita.

Loki, uno dei miei coinquilini, esterna per me, dove il 95% mi sta
(con due opzioni a vostra scelta)

Preferisco il silenzio, il parlar poco o quando parlo tanto, parlar di niente. In questo silenzio mi faccio un sacco di domande. Su di me riesco spesso a rispondermi. Sugli “altri” vado molto meno bene. Di alcuni mi domando il perché, di altri mi rammarico, e tutto è avvolto da una sensazione che lega il tutto.  Quella sensazione che non so definire se non usando un termine portoghese: Saudade.

Si son intrisa, inzuppata, gocciolante di saudate in questo periodo. Non triste, non malinconia, è qualcosa di diverso. Wikipedia la cita come “In molti casi una dimensione quasi mistica, come accettazione del passato e fede nel futuro. Spesso tale termine viene utilizzato per esprimere la “malinconia per qualcosa che non si è vissuto” o “nostalgia del futuro“.

Io questa definizione di “nostalgia del futuro” la sento nella carne. Tutte le possibilità viste e mai nate di cui è piena la mia vita, con la consapevolezza che ciò che non è nato non è neppure morto. Quindi è ancora lì, potenzialmente pronto, ad emettere il primo vagito.
Ecco per me, l’accettazione del passato è la fede nel futuro. Guardo avanti, in piena nostalgia del mio futuro, ma come posso parlarne con chi non volge lo sguardo nella mia stessa direzione?

INCHIOSTRO


Questo è uno dei più dei pezzi che io abbia scritto.
Ma non ho scritto io le parole.

Questo è uno dei più bei pezzi che abbia mai potuto immaginare.
Ma non ho buttato giù neppure una virgola.

Questo è uno dei più dei pezzi che io abbia creato.
Ma non ho intinto nell’inchiostro, ma nel sangue, il mio.

Questo pezzo, si chiama Progenie, le parole sono sue, e io Mater, so che lei è il più “bel pezzo” dell’intera mia vita.

«Stamattina busta ikea con zip piena di vestiti sporchi sulla schiena e diretta in lavanderia; nel pomeriggio giacca e lezione in azienda; la sera alla Volkshochschule.

L’autunno scorso mi ha vista iniziare a lavorare in un negozio di té, vendendone a beceri berlinesi incomprensibili e a solenni straricchi del Qatar; questo mi vede insegnare in un’istituzione tedesca, con il piacere e l’onore di avere un gruppo di apprendenti che mette assieme (a mero titolo esemplificativo) un giudice, una pastora e una biker.

Quando sono arrivata non potevo permettermi un caffé; adesso il problema è che una birra infrasettimanale è minimo alle 10 di sera – il che mi integra un po’ nella Berlino “che piace”, quella che tanto attira, e che forse contrabilancerà un po’ il quartiere spudoratamente borghese in cui sto per trasferirmi.

Martedì sera camminavo per strada con zaino sulla schiena, borsa in spalla, e uno scatolone contenente altri scatoloni in previsione del prossimo trasloco. Venivo dal negozio, andavo alla scuola. Sembravo una musicista di strada – non una reale, per quanto qui di simili ne abbondino, ma un becero stereotipo che chissà come e da dove si è impresso nel mio cervello adolescente. A quei tempi, ho realizzato martedì sera, sarei voluta diventare visivamente simile a quello che ero in quel momento – i vestiti, la stanchezza e la temperanza, un po’ di cinismo-sarcasmo e comunque, sempre, l’energia di vivere una città variegata. Non so perché volessi diventare proprio quello – non lo ricordo più, come non ricordo che cosa quell’immagine implicasse.

Adesso attraverso con la metro di superficie i quartieri belli di Berlino, diretta dai miei creativi – che direttamente creativi non sono, ma lavorano in ambito creativo e attingono allo stipendio per riempirsi l’armadio di stile. Non sono letteralmente “giovani”, ma lo sono per la posizione che ricoprono e per l’approccio al lavoro e alla vita. Da uno di loro è partito il primo invito a farmi entrare al Berghain senza fare la leggendaria fila per la selezione dai criteri imperscrutabili – una discoteca che è un’istituzione, qui, tra il tempio della techno, il fondo delle droghe sintetiche e promiscuità d’ordinaria amministrazione.

Parliamo di Air Berlin e Alitalia, di vecchietti italiani che giocano a poker su una spiaggia del Baltico. Piove, un temporale di dieci minuti di cui rimangono solo i vestiti fradici delle persone che incontro quando esco. Fa freddo, ora, per la mia giacca da tre euro. Sciolgo i capelli decisamente da lavare e mi dirigo a due cambi in metro.

La quotidianità qui è così variegata da essere pressoché impossibile da riassumere in un quadretto. Cammino tra tedeschi di diverse zone della Germania, bassi e colti, turchi e francesi e spagnoli e siriani e boh, e ragazzini dall’accento britannico inconfondibile, così come la cantilena spagnola. Il mio inglese si è imbarbarito, prendendo l’accento tedesco; il mio italiano, salvo da escursioni sonore, si è imbarbarito in altri sensi, perdendo parole per strada, sostituite dall’inglese e dal tedesco; il mio tedesco continua a suonare francese.

Non ho un sunto, non una morale. Di sera leggo e cerco stralci di idee superiori in libri e saggi pescati dalla vecchia vita o trovati in quella nuova. Ne trovo, a volte, ma applicabili a cose così astratte da saperle raramente tradurre nel quotidiano. Rimangono, taciute, come molte cose che ho smesso di raccontare. Perché sono troppe. E si moltiplicano interlacciandosi. E, quando così tante cose si accumulano, suppongo, bisogna scegliere se viverle o parlarne. C’è una consapevole rinuncia, e anche questo si infila nel magma di fili colorati – che non è per niente, proprio per niente, male.»

C’è stato un periodo in cui l’ho cresciuta, ora lei cresce me.