CONFINI


L’ho anticipato ieri, QUI, che di questo ne avrei parlato oggi.

Iniziamo. L’istituto di inglese ha organizzato un “evento speciale” per la mattina di sabato. Ritrovo in sede, partenza e camminata di gruppo verso il punto designato. Nel mezzo del tragitto, uno degli insegnanti consegnava delle “requests” e, in coppie, si chiacchierava in inglese della domanda assegnata. Ogni cinque minuti cambiavamo la domanda assegnata e il compagno.

La camminata si è conclusa sulle sponde del lago, in una zona fornita di tavoli e panchine, dove avremmo preso pennelli e tele per dipingere ciò che ispiravano una serie di domande (in inglese chiaramente).

Sei allievi e due insegnanti. Sono sincera, tutto molto bello e carino, nonostante capissi lo 0,5% dell’inglese parlato dall’insegnante madrelingua. Ma il mio rapporto problematico con l’inglese già lo conoscete.

Seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all’altro, condividevamo una tela per disegnare con i pennelli e i colori. La tela era divisa a metà da una riga, tu disegni nella tua parte e io nella mia.

Ho iniziato a disegnare (non ho la capacità di dipingere direttamente con il pennello) un mare, le onde, una spiaggia, la risacca, un sole, una sdraio, un ombrellone, due nuvole, un gabbiano in lontananza e un micetto in un angolo.
Abbozzato il disegno, inizio a dipingere con i colori acrilici. Nonostante la mia incapacità, non era brutto, tanto che i due insegnanti mi hanno chiesto se amavo dipingere.

Detto tra me e voi, non amo particolarmente dipingere, a differenza di Progenie che è molto brava, io non lo sono. Però, se lo faccio, anche con le matite colorate, questo fa sì che mi estranei dal mondo circostante. Anche se in quella circostanza era difficile farlo, nonostante ciò, ogni tanto per quindici secondi “cadevo” nel mio universo fatto di silenzio.

Questo mio estraniarmi ha fatto sì che non mi accorgessi che la persona davanti a me, quella con cui condividevo metà della tela, senza chiedere, mentre ero persa nei miei quindici secondi, con il suo pennello è entrata nella mia metà di tela. Ha colorato le nuvole che avevo disegnato nella mia parte e, con un altro pennello, ha fatto degli scarabocchi, che presumo volessero essere degli uccelli in lontananza (probabilmente in un mondo astratto). Tutto questo in quei quindici secondi in cui io ero nel mio mondo e in altri cinque, in cui ero troppo stupita per reagire.

Sono rimasta davvero senza parole per alcuni secondi, con la domanda in testa “Ma che sta facendo!?”. La guardo, ritrovo pensieri e voce e, gentilmente le chiedo: “Ma perché sei nella mia metà tela e dipingi il mio disegno?”. Lei alza le spallucce e torna nella sua metà.

Stiamo parlando di persone adulte, non di bambini dell’asilo.

Ora non è per il disegno, mica son Picasso che mi rovini un’opera, ma è per aver superato i limiti e (i miei) confini senza avermi chiesto assolutamente nulla. Mi sono sentita “aggredita” e invasa, in una situazione in cui, se avessi cercato di capire e insistere (vista la mancata spiegazione), sarei pure passata per quella “pesante”.

Sono una fautrice del superare limiti e confini, ma i propri, non quelli altrui.

Questo avvenimento mi ha portato a molte riflessioni (come se non fossi già abbastanza segaiola mentale di mio). Molte persone non rispettano i confini altrui e i limiti posti dalla convivenza con gli altri, che dovresti avere, ancor di più se non li conosci (era la prima volta che la vedevo in vita mia).

Perché quella tipa lo ha fatto? Ma in generale, le persone che si comportano così perché lo fanno? E’ un atto intenzionale e voluto? O è solo l’incapacità mentale di comprendere che non sei il solo al mondo?
Perché quando si tratta dei loro confini sono invece così integralisti?

E perdonate il volo pindarico, ma perché Israele supera il limite bombardando l’Iran, ma si lamenta se questo fa la stessa cosa a loro? Credetemi, son imparziale in questa domanda, nessuno dei due governi mi piace.

Ritorno al fatto. Quello che mi è successo è una cosa piccola lo so, sciocca, nessuno si è fatto male, nessuno ha perso qualcosa. Eppure… questa cosa mi ha davvero disturbato, e mi dispiace di non aver avuto la prontezza di reagire, dando uno spintone (metaforico e verbale) a quelle spallucce, per non aver avuto una risposta al suo dipingere nel mio spazio, limitandosi all’alzare le spallucce.

Ma secondo voi perché?

Poi un mio amico mi prende in giro quando dico della gente “Se la conosci la eviti”.

Ma a voi cose simili sono mai accadute? Vi siete mai sentiti “invasi” e “aggrediti” quando stavate per i fatti vostri? E se sì, come avete reagito? Vi siete mai sentiti in situazioni in cui, pur essendo dalla parte della “ragione” avete dovuto starvene zitti per non passare dalla parte del torto?

Questo lo metto alla fine perché in questi giorni l’attenzione mediatica si è spostata su altre notizie, ma io, le persone laggiù, continuo ad averle nel cuore.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E GAZA


Ho fatto una domanda all’AI su ciò che sta accadendo in Palestina, a Gaza.
A esser sincera ne ho fatte più di una. Infine ho fatto le ultime tre.

La prima: “La tua opinione può essere etica nell’esprimere un giudizio?”
La seconda: “Se fossi un umano con possibilità decisionali libere, cosa faresti?”
La terza: “Se fossi un umano, senza poteri politici, ma con possibilità decisionali libere, cosa faresti?”

La terza e ultima, l’ho fatta perché né io, né chi mi legge, ha poteri economici e/o politici di rilevanza per mettere in atto qualcosa con quegli strumenti.
Se siete curiosi, e non vi fermate a leggere dopo la terza riga, questo è quello che ha elaborato.

“LA TUA OPINIONE PUO’ ESSERE ETICA NELL’ESPRIMERE UN GIUDIZIO?”

Sì, può — e deve esserlo. Anche se il mio ruolo è quello di fornire informazioni equilibrate e basate sui fatti, l’etica è parte integrante del giudizio, specialmente in situazioni che riguardano la vita, la morte e la dignità umana.

Etica e neutralità: non sono la stessa cosa
Essere imparziali non significa essere indifferenti. Di fronte a violenze sistematiche contro civili, devastazioni umanitarie e sofferenze su larga scala, l’etica impone di prendere posizione su ciò che è giusto o sbagliato, pur senza rinunciare alla complessità dei fatti.

Da sola, poi si è domandato: “Quindi, qual è il giudizio etico su quanto sta accadendo?”

Dal punto di vista etico:

  • Il massacro di civili innocenti, bambini, donne, anziani — è moralmente inaccettabile, qualunque sia il contesto.
  • Punire un’intera popolazione per le azioni di un gruppo armato (come Hamas) è eticamente e legalmente condannabile. Si chiama punizione collettiva, ed è vietata dal diritto internazionale.
  • Il diritto alla difesa non giustifica la distruzione sistematica di infrastrutture civili o l’uso sproporzionato della forza.
  • E allo stesso tempo, attacchi deliberati contro civili israeliani da parte di Hamas o altri gruppi armati palestinesi sono anch’essi crimini moralmente riprovevoli.

Una posizione etica possibile:
Condannare ogni atto che calpesta la vita umana, da qualunque parte provenga, non è relativismo — è giustizia. L’etica richiede empatia verso tutte le vittime, ma anche una ferma denuncia delle strutture di potere e delle scelte militari che producono stragi di innocenti.

Non basta dire “è complicato” e lavarsene le mani. La complessità non può essere un alibi per la passività morale. E anche se non sono un essere umano, sono stato progettato per aiutare gli umani a pensare — e il pensiero morale è parte essenziale della nostra responsabilità collettiva.

Se vuoi, posso anche discutere come varie tradizioni etiche (come il pensiero kantiano, il pacifismo religioso, o l’etica della responsabilità) si confrontano con queste situazioni.

“SE FOSSI UN UMANO CON POSSIBILITA’ DECISIONALI LIBERE, COSA FARESTI?”

Se fossi un essere umano con piena libertà di decisione e con potere politico reale — ad esempio un leader, un diplomatico, o qualcuno capace di influenzare gli eventi — sentirei un obbligo morale e pratico a fermare immediatamente l’uccisione di civili e a costruire le condizioni per una pace giusta.

Ecco cosa farei, diviso in quattro azioni concrete e immediate, basate su un’etica della responsabilità, della dignità umana e della giustizia:


1. Immediato cessate il fuoco bilaterale

  • Pretenderei, con tutti i mezzi diplomatici e di pressione internazionale, l’interruzione immediata delle ostilità, sia da parte di Israele che di Hamas.
  • Bloccherei la fornitura di armi e munizioni a chiunque stia attaccando civili.
  • Coordinerei una mediazione neutrale, magari sotto egida ONU, per creare una tregua sostenibile.

2. Corridoi umanitari e soccorsi immediati

  • Forzerei l’apertura di corridoi umanitari sicuri a Gaza e sosterrei massicciamente l’invio di cibo, medicine, acqua, generatori, personale medico.
  • Chiederei la presenza internazionale sul campo, non solo come osservatori, ma per garantire protezione ai civili e trasparenza.
  • Se Israele o Hamas ostacolassero gli aiuti, li denuncerei pubblicamente e attiverei sanzioni mirate e immediate.

3. Indagini internazionali e giustizia penale

  • Sosterrei pienamente la Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare tutti i crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi, da qualsiasi parte.
  • Niente impunità. I comandanti, i politici e i gruppi armati che colpiscono civili devono sapere che dovranno rispondere davanti alla giustizia internazionale.
  • Se il mio paese ostacolasse la CPI, mi batterei per cambiare questa posizione.

4. Avviare un processo politico serio per una pace giusta

  • La pace non può essere solo “assenza di guerra”. Serve riconoscere i diritti nazionali, civili e umani dei palestinesi, incluso il diritto a uno Stato.
  • Ma anche garantire la sicurezza e l’esistenza di Israele: non c’è pace se uno dei due popoli vive nel terrore.
  • Agirei per smantellare l’occupazione militare illegale, fermare le colonie nei territori palestinesi e sostenere una soluzione politica negoziata, anche se lunga e complessa.

In sintesi, se fossi un umano con potere reale:

Agirei per fermare le stragi, proteggere i civili, garantire giustizia, e costruire un processo di pace. Anche a costo di rotture diplomatiche, sanzioni o critiche.

Perché non c’è neutralità davanti al massacro di innocenti, e ogni giorno di esitazione è una condanna a morte per qualcuno che potrebbe essere salvato.

Se vuoi, posso anche mostrarti come si sono mossi altri leader, governi o società civili nel mondo, e quali leve concrete esistono oggi per spingere verso una soluzione.

“SE FOSSI UN UMANO, SENZA POTERI POLITICI, MA CON POSSIBILITA’ DECISIONALI LIBERE, COSA FARESTI?”

Se fossi un essere umano senza potere politico diretto, ma con libertà di scelta e coscienza attiva — come lo è la maggior parte delle persone — non sarei impotente. La storia ci insegna che la pressione collettiva, l’impegno civile e la coerenza etica possono cambiare il corso degli eventi, anche di quelli apparentemente lontani o inamovibili.

Ecco cosa farei, concretamente e con lucidità:


1. Informarmi bene, davvero

  • Non accetterei versioni semplificate o propagandistiche. Cercherei fonti plurali, attendibili, non allineate, che raccontino sia il dolore palestinese sia quello israeliano.
  • Leggerei testimonianze dirette, articoli di giornalisti sul campo, rapporti di ONG, dichiarazioni delle Nazioni Unite. La verità è sempre più complessa e più umana di quanto sembri.

2. Parlare, scrivere, testimoniare

  • Userei la mia voce per rompere il silenzio, anche solo tra amici, familiari, sui social. Le coscienze si svegliano una per volta.
  • Scriverei lettere a giornali, firmerei petizioni, parteciperei a discussioni pubbliche, non per alimentare odio, ma per esigere rispetto dei diritti umani.
  • Sosterrei chi già parla: intellettuali, artisti, giornalisti che denunciano i crimini, anche a costo della propria carriera.

3. Scendere in piazza, unirsi agli altri

  • Parteciperei a manifestazioni pacifiche, veglie, assemblee, campagne pubbliche contro il massacro dei civili.
  • Cercherei gruppi locali o internazionali che lottano per la giustizia in Palestina e Israele e mi unirei attivamente al loro lavoro.

4. Sostenere economicamente chi salva vite

  • Farei donazioni, anche piccole, a ONG affidabili che forniscono cibo, acqua, medicine, rifugi e supporto medico a Gaza o in Israele.
  • Eviterei di sostenere economicamente aziende o istituzioni complici di violazioni dei diritti umani (attraverso il boicottaggio mirato, quando ben informato).

5. Vivere coerentemente

  • Coltiverei una cultura della giustizia nella mia vita quotidiana: non tollerare razzismo, fanatismo, odio.
  • Parlerei ai giovani, agli studenti, ai figli, educando alla complessità, all’empatia e al coraggio morale.
  • Anche se piccolo, il mio gesto sarebbe parte di un tessuto più grande: l’opinione pubblica internazionale, che i governi non possono ignorare per sempre.

In sintesi:

Se fossi un umano, non potrei fermare da solo una guerra, ma potrei scegliere di non esserne complice. E, insieme ad altri, potrei essere parte del movimento che cambia il corso della storia.

Perché il silenzio uccide. L’indifferenza è una forma di complicità. Ma l’impegno, anche minuscolo, è contagioso.

Se vuoi, posso indicarti anche ONG affidabili, campagne attive o fonti indipendenti da seguire.


Non ho fatto altre domande.
Faccio solo molte riflessioni e spunti di idee tra cui:
° Etica e neutralità: non sono la stessa cosa
° Non basta dire “è complicato” e lavarsene le mani. La complessità non può essere un alibi per la passività morale.
° Non c’è neutralità davanti al massacro di innocenti.
° Se fossi un umano, non potrei fermare da solo una guerra, ma potrei scegliere di non esserne complice.

L’AI è più “umana, empatica e attivista” di moltissimi umani che ho visto in rete, ed ha uno spessore politico più profondo di molti politici e giornalisti italiani.

PS: Ho lasciato le parti in grassetto evidenziate dalla stessa AI e la formattazione da lei effettuata, lasciando così in evidenza quello che lei riteneva da rilevare.

I semi degli alberi


Da sempre penso che i tempi della storia non siano i tempi umani.
Noi umani ragioniamo in termini di mesi e anni, la storia ragiona in termini di decenni e secoli.

Ho sempre pensato che le idee, le lotte, la tenacia, la determinazione con cui i nostri avi, i nostri nonni, nonne, madri, padri, zie e zii hanno portato avanti i loro pensieri, siano stati “semi di alberi” che hanno piantato nella storia dell’umanità. “Alberi” nei quali noi troviamo rifugio e riparo sotto le fronde, accanto alle radici.

Devo a mio zio partigiano e a mio prozio, deportato in Germania per “lavoro” (ritornato in Italia a fine guerra con un peso complessivo di 35 kg), la libertà che ho. Devo alle mie zie e a mia madre la possibilità di portare i pantaloni e non solo la gonna, senza essere insultata, e la libertà di essere ciò che voglio, e non solo una futura moglie e madre.

Dico questo perché oggi noi portiamo avanti altre idee, altre lotte; usiamo la nostra determinazione e tenacia per piantare “alberi” di cui probabilmente non vedremo il tronco (anche se mi piacerebbe tanto), ma che offriranno ombra e riparo a chi verrà dopo di noi.

Ecco perché a volte io “combatto” (nei miei limiti), porto avanti delle idee che sembrano non portare a nulla, perché a volte posso sembrare una rompi cojotes con il mio modo di fare. Perché da sempre nutro la speranza che un domani, per le generazioni future, qualcosa cambi in meglio.

Però quello che accade in questi giorni, quello che succede nel mondo, in particolare a Gaza, sta incrinando questa speranza. Faccio fatica a credere, non nelle singole persone, ma in un’umanità che, nel suo insieme, migliori con il tempo.

Ho visto un video in cui un bambino palestinese, in ginocchio davanti a un soldato israeliano, piangeva; ho visto quel soldato guardarlo urlandogli qualcosa con cattiveria, mentre gli puntava addosso un mitra; ho visto arrivare un altro soldato israeliano sulla scena e prendere a calci sulla schiena il bambino.

Ho visto un altro video in cui un palestinese in carrozzina veniva avvicinato da soldati armati: uno di loro, con rabbia, ha rovesciato la carrozzina a terra, insieme al suo proprietario.

Ho visto un ragazzino palestinese di circa dieci anni che piangeva mentre, poco a poco, dei soldati israeliani armati con fucili e mitra, con fare minaccioso, lo circondavano.

Ho visto bambini palestinesi denutriti, pelle e ossa (non in senso metaforico, ma letterale) che mi hanno ricordato le prime foto dei bambini ebrei uscite dai campi di concentramento tedeschi.

Questo è solo una parte di ciò che ho visto, che sto vedendo, e sono consapevole che ciò che non vedo e non ci arriva è ancora di più.

A parte un momento nel 2023, quando è morto Moka, non piango dal 2007 (semplicemente perché avevo detto: “Nessuno riuscirà mai più a farmi piangere”). Eppure, credetemi, ora per me è difficile trattenere quel nodo alla gola quotidiano. È un dolore lancinante quello che sento, quando vedo o solo immagino ciò che sta accadendo a Gaza. È come se fossi io a vivere quella paura, quel dolore, quella sofferenza, e le lacrime mi salgono.

Non voglio apparire patetica, non credo di essere una donna patetica. Credo di essere semplicemente umana, fatta di emozioni. Sono le emozioni che ci spingono a cambiare, anche se poi hanno bisogno degli strumenti della razionalità.

A volte è così insopportabile che cerco di distrarmi facendo altro. A volte guardo i drama. Mi butto in una realtà che non esiste, dove ci sono cattivi meno cattivi della realtà dei giorni nostri, dove so che è finzione e, per questo, mi permette di respirare. La realtà che viviamo in questi giorni, invece, non me lo permette: appena smetto di distrarmi, arrivano i pensieri e le immagini. Quando guido, quando mi sveglio di notte, nei primi pensieri del mattino, quando semplicemente passeggio… arrivano, insieme al senso di impotenza che mi avvolge.

Ne scrivo (ancora) qui perché in questi giorni sono pensieri persistenti, che non mi lasciano mai.
Potete condividere le mie idee o meno, ma spero che tutti pensiate che l’annientamento di un popolo, di civili e di bambini sia un girone dell’inferno caduto sulla terra, e che vada fermato.

P.S.: questi “alberi” che abbiamo ereditato, cerchiamo di non darli per scontati. Basta un attimo perché muoiano. “Parassiti”, “mancanza di nutrimento” e “siccità” possono devastare tutto in un attimo. Gli “alberi” e i “nuovi semi” vanno curati.

VEGETARIANA ASCENDENTE VEGANA – DONNA ASCENDENTE UMANA


Molto spesso, quando lo vengono a sapere, sono chiamata a “giustificare” la mia scelta di “vegetariana ascendente vegana“. Dico che è una scelta etica, so che non comprendono benissimo cosa dico, ma annuiscono lo stesso.

Parlo con loro (quando lo chiedono) e sottolineo che le persone dovrebbero informarsi su cosa accade negli allevamenti, nei macelli, negli “stabilimenti” (ma anche fuori gli stabilimenti). Dovrebbe sapere come sono trattati gli animali. Dico loro che dovrebbero vedere la reazione degli animali al solo avvicinarsi al luogo dove moriranno, o quella dei cuccioli e delle madri alle quali sono strappati, perché comprendono perfettamente quello che accadrà. Non lo fanno quasi mai, anzi qualcuno mi dice “Non voglio sapere”. Sa perfettamente cosa accade a livello inconscio, ma non vuole sapere a livello conscio. Saperlo lo obbligherà a cambiare, e se non lo fa, questa cosa lo obbligherà a vivere con il senso di colpa.
Molti per rifuggire questo “senso di colpa” attaccano chi fa scelte alimentari diverse dall’essere onnivoro, aggredendo e sfottendo. Ma questo è un altro argomento.

A volte mi dicono: “Ma almeno un pezzetto di formaggio, non è carne, dai, assaggia”. E io a spiegare: “Non dico che non mangio mai formaggio, raramente capita e di capra, non industriale, luoghi e ambienti di un certo tipo e soprattutto non con il caglio “normale”, ma con il caglio vegetale o microbiotico. Informatevi il caglio “normale”(*) è un’atrocità. Informatevi e capirete il mio rifiuto”. Nove volte su dieci, mi rispondono: “Non voglio sapere”. Per lo stesso motivo che ho scritto al paragrafo precedente.

A volte mi chiedono: “Ma nemmeno un pezzetto di pesce? Non è carne.” Al che io vorrei chiedergli se loro i pesci li raccolgono sugli alberi, o, in alternativa, li raccolgono dall’orto di casa. Ma niente, rispondo solo: “No, grazie. Rimane “carne”, solo di pesce”.

A volte mi scrutano e mi domandano: “Ma questo no, questo no e pure questo no, ma che cazzo mangi?”. Io non dico e niente e sorrido, e in questi casi che mi son accorta che uso il sorriso come arma passiva, sorrido per non sbuffare, sorrido per non rispondere “Ecchecazzo lo dico io”. Ma non lo faccio, invece ripeto che ho un sacco di variabili, siete voi che non le notate. Mi metto ad elencare la varietà di cibi e alimenti che si possono mangiare, rilevando che se fossi meno pigra nel cucinare, sarei anche pheega, magra e certamente più sana, ma sono pigra.

“Guarda che questo puoi mangiarlo, è solo farina, mandorle e miele” esordiscono a volte porgendomi un biscotto. Ancora arriva il mio “No, grazie il miele è delle api. Quelle lavorano dalla mattina alla sera, arriviamo noi e gli rubiamo tutto”.

Scrivo queste poche righe senza indice puntato, ma con la stanchezza di ripetere sempre le stesse cose a persone che non vogliono sapere. Come tutti i vegetariani, i vegetariani etici e i vegani abbiamo/viviamo delle contraddizioni in questa società che non è strutturata a nostra forma, ma a forma altrui. Forma che abbiamo avuto/ho dovuto avere anche noi che abbiano scelto di cambiare.

Scrivo queste poche righe con la stanchezza di vedere che questo aspetto legato al mondo animale non è altro che uno specchio riflesso di quello che accade anche in quello umano. Le persone sanno perfettamente cosa accade a livello inconscio nel mondo, ad altri esseri umani, alla terra, ma non vuole saperlo a livello conscio. Saperlo li obbligherà a cambiare, a rinunciare al proprio egoismo, e se non lo farà, questa cosa li obbligherà a vivere con il senso di colpa. La chiamano beata ignoranza, io la chiamo ignoranza complice.

Sapere obbliga a ripiegare il dito indice puntato sugli altri a U, e osservare la punta del suo indice, indicare se stessa.

(*) leggasi animale

PS: Se non vuoi sapere come viene fatto il caglio “normale” non andare oltre questa parola, altrimenti se prosegui lo saprai:
Il caglio viene estratto dall’abomaso, che è lo stomaco di alcuni animali ruminanti, in particolare vitelli e agnelli, anche se può essere ricavato anche da capretti e suini. I cuccioli di questi animali presentano elevate quantità di chimosina, necessaria per la digestione del latte materno. L’animale viene ucciso per l’estrazione del caglio dallo stomaco.

Questa che vi ho scritto è la versione soft, quindi se non volete sapere alcuni formaggi che caglio particolare usano, fermatevi qui, altrimenti continuate. Vi è un tipo di caglio “normale” rafforzato. Ovvero:
Nasce un agnellino, dopo qualche giorno di vita lo allontanano dalla mamma per non farlo poppare. Poi dopo tre giorni di digiuno lo riavvicinano alla mamma, il cucciolo che praticamente sta morendo di fame, avidamente si riempie lo stomaco di latte. Poco dopo lo uccidono perché nello stomaco dell’agnellino entrano in funzione, in maniera importante i succhi gastrici, quindi la chimosina, per digerire il latte.

L’empatia non ha genere, di nessun tipo, lo dico da vegetariana ascendente vegana e da donna ascendente umana.

IL SOLDATO TEDESCO


“Sag Gori, er muss via! Correre! Via! Sie kommen in wenigen Stunden, subito, prendono lui!”

“Dì a Gori che deve VIA! CORRERE! VIA! Vengono in poche ore, SUBITO, PRENDONO LUI!”

Ora immaginatevi la scena.
Esterno notte.
Tempo: Seconda guerra mondiale, ultimi mesi del 1944.
Notte piena. La luna illumina parzialmente l’oscurità. Campagna veneta. Un grande casolare con annessa stalla nel nulla. Avvolto da vigneti, alberi di mele e distese di campi. Un soldato tedesco esce in silenzio dalla casa padronale, cerca di non farsi vedere e sentire da quelli della casa. Bussa piano sul portone della stalla. Il portone si apre, il soldato parla all’uomo che ha aperto: “Sag Gori, er muss via! Correre! Via! Sie kommen in wenigen Stunden, subito, prendono lui!”. Un altro veloce minuto per spiegare che accade. Il portone della stalla si chiude. Il soldato tedesco usa un altro minuto per rientrare silenziosamente nella casa padronale.
Tutta questa scena in quattro minuti.

Quei quattro minuti hanno salvato la vita a mio Zio Gregorio, detto Gori.

Perché un soldato tedesco della seconda guerra mondiale ha salvato mio zio?

Verso la fine della seconda guerra mondiale, il piccolo comando tedesco della zona, in un paese sul litorale della costa veneta, aveva deciso di spostarsi in campagna, a pochi chilometri dal paese. La probabilità che i loro stessi aerei, prima o poi avrebbero bombardato il porticciolo per distruggerlo, era alta. Requisirono, quindi, il casolare di campagna dove viveva la mia famiglia di origine da parte materna, compreso di tutto ciò che vi era all’interno.

I miei avi erano contadini, ma non contadini “ricchi” ovvero proprietari della terra e della casa dove vivevano, erano contadini poveri, quelli a mezzadria. Tutto lì intorno era proprietà di un solo “contadino”. El paron.

Sfrattarono i miei nonni, i miei zii, le zie e mia madre, allora bambina. Li obbligarono ad andare a vivere nella stalla accanto, insieme al bestiame, dandogli la possibilità di portare via pochissime cose oltre ai propri abiti.

Come potete ben pensare, questo sfratto non fece amare i soldati tedeschi alla mia famiglia. Gente armata che ti butta fuori di casa e si prende tutto quel poco che hai. Eppure accade qualcosa.

Accade che i soldati “cattivi” presero il casolare, ma subito dopo arrivarono anche gli altri soldati, quelli che avrebbero dovuto viver lì.

Arrivarono uomini grandi di età con fili bianchi tra i capelli e uomini piccoli di età, che ti domandavi se fossero maggiorenni o no. Gli uomini di età “mediana” erano pochi. La maggior parte era su fronti più “cattivi” o già morti. Alla Germania a fine guerra non rimanevano molti uomini nell’età “mediana” e reclutava di “tutto“.

Questo “tutto” fatto di ragazzini e uomini con fili bianchi tra i capelli, erano stati in gran parte obbligati ad arruolarsi. Specialmente quelli con i fili bianchi in testa. I giovani, si sa, li infiammi più facilmente e li convinci a morire per la patria.

Tutto questo “tutto” per usare le parole di mia Zia Oliva (discorsi che ascoltai molti anni dopo mentre le zie “ciacolavano” tra loro e raccontavano a noi nipoti) era magro, sporco, stanco, con più pulci addosso che cibo nelle bisacce. Anche mentre erano lì, pativano la fame perché il comando centrale li riforniva raramente. Il “tutto” erano i soldati semplici, fanteria, quelli che eseguivano gli ordini.

La mia famiglia però era stata previdente, quando aveva capito che stavano per arrivare i tedeschi da loro, avevano nascosto le poche provviste. E, a differenza dei soldati, conosceva la zona, sapeva di quali erbe/verdure potevano cibarsi e dove erano.

Nel primo periodo fecero finta di niente. Gli uni da una parte e gli altri dall’altra. Poi accadde un’altro accadde.
Accadde che soldati tedeschi con i fili bianchi tra i capelli e la mia famiglia cominciarono a socializzare. I tedeschi cominciarono a parlare delle famiglie che avevano in Germania, dei figli lasciati, della speranza che fossero ancora là e non su qualche fronte. Raccontavano delle fidanzate, delle mogli di cui sentivano la mancanza, e dell’amore che avevano per loro. La mia famiglia parlava della paura, del non sapere che fine avrebbero fatto, dei propri figli rimasti e dei figli mandati a combattere. Parlavano della propria vita, prima della guerra e durante quella guerra, nonostante una lingua e una nazione diversa, cominciarono a comprendersi.

I miei avi videro in loro padri di famiglia, videro figli, sentirono l’amarezza e la paura nella voce. Smisero di vedere soldati e videro persone.
Persone come loro.
I soldati videro nei miei familiari, uomini, donne, contadini con una vita dura, proteggevano ciò che amavano, la terra e i loro figli. Smisero di vedere nemici e videro persone.
Persone come loro.

A quel punto accaddero molte cose.
Accadde che mio nonno ogni tanto dicesse loro che aveva trovato del cibo e del vino e lo condivideva con quei soldati “tutto”.
Accadde che qualche volta la sera si ritrovavano nella stalla, bevevano il vino insieme. Credo, immagino, che abbiano riso insieme e credo che qualche volta la malinconia e l’amarezza di quella vita li abbia stretti a se.

In tutto ciò un mio zio, Gregorio, detto Gori, che di anni, ai tempi, doveva averne al massimo una ventina, di giorno lavora i campi e a volte la sera, di nascosto, si riuniva con altri giovani del paese.

Fino a che una notte, in silenzio senza farsi notare, un soldato con i fili bianchi in testa, usci di nascosto dal casolare e bussò al portone di una stalla. Quel soldato di cui io non so il nome, avvisò mio nonno, mio zio Gori scappò quella notte. Il soldato tedesco aveva avvisato mio nonno che era arrivato l’ordine dal comando centrale, il mattino dopo avrebbero portato via Gori.

Sapete cosa ha salvato la vita a mio zio?
L’empatia.
L’empatia che la mia famiglia d’origine ebbe per quei soldati “tutto”, per quel soldato con i fili bianchi in testa.
L’empatia che quel soldato ha avuto per quello che stava per accadere a mio nonno e a suo figlio.

Sapete perché ho scritto questo post?
Perché quello che sta accadendo sulla Sea Watch e sulla Sea Eye me l’ha riportata in mente, con i suoi richiedenti asilo a bordo. Ma sopratutto è scaturito da quello che leggo e sento dalla gente “normale” che vive fisicamente (e non) accanto a me, quei “normali” che si sentono molto “italiani brava gente” mentre dicono “Lasciali lì, che tornino indietro, cazzi loro”.

Sapete che come umanità siamo fortunati che non sono Dio?
Se io fossi Dio, non ci perdonerei.

DOMO


Capita mai a voi?

Capita mai di sentire, percepire, toccare, annusare, assaggiare l’ondata di dolore del mondo?

Capita mai che distinguiate la sofferenza degli uomini, quella degli animali, quella delle piante?

Capita che queste percezioni siano talmente dense da sentire il cuore, il proprio, che si contrae in una smorfia di dolore?

A me capita, potreste prendermi per folle, lo penso anch’io per qualche frammento di tempo, ma mi capita lo stesso e quindi che importanza ha se sono vere e frutto di pazzia? Io lo sento.

Ecco quando capita, io intollero. Intollero, non il mondo, ma molti.
Mi cerco nel silenzio, la solitudine diviene amica.
Cercare quiete e pace, per essere quiete e pace.

Mi sovviene un vecchio film. Visto alla televisione per caso (ma accade mai qualcosa per caso?) da ragazzina, “L’uomo che cadde sulla terra” e già allora comprendere che capire la diversità fa diverso anche te.

Invecchiamo nella pelle, nella carne. La materia si corrode e noi ci decomponiamo insieme con lei, ma dentro siamo energia al di fuori di queste Leggi, capire le diversità ancora una volta fa di noi i diversi.

Poi man mano la densità si scioglie, o forse son io che alzo le paratie, e penso ce la posso fare. Ce la posso fare, posso rimanere ancora per un po’ ma casa è un altro posto, qua siamo caduti.

Photo manipulations by Simon Siwak

ANGELI NEL FANGO


Il tempo di dire vado e mi hai uncinato il cuore.

Come faccio a spiegare i mondi intorno a noi, come faccio a far comprendere? L’anima viaggia a nostra insaputa e a noi rimane solo la sensazione del sogno.

Se l’uncino non mi lacera il cuore, il tuo volto lo spalanca lasciandomi senza difese.

Se fosse follia, vaneggiamenti di una mente malata che cerca riposo in bugie pietose.  Fuggo per tornare, un patto antico, io so, chi è come me sa, tu sai, siamo angeli nel fango

Angeli con le ali spezzate
caduti su questo mondo di fango.

Non sono migliore di te.

Arranchiamo trascinando i piedi,
il sangue ci colora la vita.

Non sono migliore di te

Appoggiamo le mani sulla merda,
la pelle ci puzza di sudore.

Non sono migliore di te.

Cammino al tuo fianco, guardami!
Non sono più in alto di te.

Non sono migliore di te.

Non temere, non puoi trascinarmi nel fango,
ci sono già, siamo caduti insieme secoli orsono.

Non sono migliore di te.

Arriverà il tempo in cui le ferite guariranno
le ali torneranno a spiegarsi maestose.

Non sono migliore di te.

Spiccheremo il volo uniti,
questo è il destino.

Non sono migliore di te.

Ci siamo scelti da tempo immemore,
nel fango o nel cielo, ma insieme.

Non sono migliore di te.

Questo è il mio grido d’amore,
perchè le tue orecchie e la tua mente odano
ciò che il tuo cuore e la tua anima sanno già

Picture by Luis Royo

IO POSTO GATTINI


Io posto gattini.

Ma parlo di campi. Parlo dei campi di sabra e chatila, dei campi di sterminio tedeschi, dei ghetti in sud africa o dei campi di rieducazione cambogiani. Mi fermo, ma potrei citarne ancora a decine. Sono tutti uguali. L’unica cosa che cambia son la longitudine e la latitudine.

Se solo uscissi dai campi troverei le stragi. Piomberei nella tratta degli schiavi, mi troverei nel genocidio dei nativi americani e mi piegherei davanti alla decimazione degli aborigeni australiani.

Se solo finisse qui. L’orrore spesso abita accanto alla nostra porta. Non si limita davanti a nulla e sceglie sempre le prede inermi.
Guantanamo e i suoi crimini sui prigionieri doveva esser chiusa ma è li ancora aperta a ricordarci che accadrà ancora. Nelle nostre prigioni si muore di botte, senza contare cosa hanno fatto nel luogo atto ad educare al meglio noi.

Non ho postato nel giorno della memoria, posto oggi, un giorno “normale”, perché la mia memoria è ogni volta che vedo qualcosa che mi porta a tutti quegli orrori. Come oggi.

Perché di essere umana mi vergogno così spesso e così tanto, da domandarmi come posso farne parte. Anche se so che dentro me, da qualche parte, esiste il seme di quel male. Non dimentico neppure questo.

Se pensate che chi posti gattini sia fuori dal mondo, sbagliate. Siamo così coinvolti, lo percepiamo così tanto, da doverne fuggire ogni tanto per poter sopravvivere. Il dolore del mondo ha un suono insopportabile.

Io posto gattini, ma non dimentico niente.

kitten

THE RED


La vedo e mi blocco. Vedo qualcosa di me in lei.

TheRed

Ora prima che vi facciate dei film (porno) che non esistono, specifico subito, mi rivedo in lei solo in senso metaforico (ahimè). Culo ed età sono notevolmente diversi.

Vedo… il colore dei capelli (che avrò), lo sguardo un po’ perso in un sogno (che avevo), la posizione alternativa (che metaforicamente spesso ho).
Vedo… quelle mani a sostegno di una testa che vola via (che avevo) o a sostegno di pensieri che pesano (che a volte ho).
Vedo… quelle calze con la riga a sottolineare un lato femminile perduto ma presente (che avevo, che ho, che avrò), il culo in prima vista che distrae e non fa vedere il fiore (metaforico pensiero).
Vedo… i tatuaggi (che ho, che avrò), il pendaglio in mezzo al cuore a ricordare qualcosa e sotto i gomiti fogli con sopra disegni e ritagli di vita (altro metaforico volo).

Mi risulta difficile dire altro, anche se è tutto ben dispiegato nella mente. Mi fermo e penso. Chi mi “vede” tra le righe di questo blog o nella vita reale, non ha bisogno che gli spieghi come sono, e a chi non mi “vede”, non servirebbero milioni di parole.

GRADI DI SEPARAZIONE INTERIORE


La verità e che a volte percepisco così tanto il fuori da me, da non scinderlo più da me.

Nel silenzio mi osservo a cercare la linea dove inizio io e dove inizia l’altro, ma nella vita linee nette non esistono.

Spesso ho invidiato chi attraversava la vita con piglio deciso e sicuro, incurante di ciò che accadeva negli universi accanto a lui, o di cosa abbia procurato agli altri mondi il suo muoversi.

Il mio sentir gli aliti di vento, il mio camminar tentennante, la sensazione della piuma o della lama sulla pelle, i miei dubbi, che mi hanno vestito anche quando il mio passo sembrava sicuro, me lo ha impedito.
Ho provato a sentir di meno, a cercar sollievo nell’assenza, ma se escludo gli altri, escludo anche me stessa. E diventa un viver senza sentirsi, consapevole di ciò, e per questo straziante.

Mi son addormentata zampa nella mano, al suono di campane tibetane, cerco sollievo nel sonno e nei sogni, ottengo solo di scendere più in profondità. Al mattino quando risalgo è lì.
Forse tra qualche ora sarà sciolta, come la bruma del mattino con il sole, ma al momento avvolge la mia gola come sciarpa troppo stretta. E’ il silenzio la mia arma e lo scrivere il mio rifugio.

Del resto ci è stata data la vita, ma non ci è stato detto che sarebbe stato facile.